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La politica estera del nuovo Egitto

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L’Egitto sta cambiando. A dimostrarlo è anche la reimpostazione della sua politica estera che ha iniziato a scuotere i vecchi equilibri mediorientali: già da quando, lo scorso marzo, le autorità egiziane hanno consentito la riapertura del valico di Rafah, al confine con Gaza. Il processo di riposizionamento potrebbe ora ampliarsi con l’annunciata normalizzazione dei rapporti con due dei maggiori avversari di Israele: Hamas e l’Iran.

Insieme alle monarchie dei paesi del Golfo, fino allo scorso febbraio l’Egitto era percepito come parte integrante del blocco pro-americano in Medio Oriente. Decisivo alla creazione di tale schieramento era stata la decisione egiziana, nel lontano 1979, di dare protezione allo shah Mohammad Reza Pahlavi, appena deposto dalla rivoluzione iraniana. I rapporti con Teheran si erano poi definitivamente deteriorati con la firma dell’accordo di pace tra il Cairo e Israele nello stesso anno.

Gli eventi dei primi mesi del 2011 stanno modificando in modo forse radicale la situazione. In effetti, già lo scorso ottobre lo stesso Mubarak aveva firmato un accordo per la ripresa di voli diretti tra le due capitali. Ma è stata di impatto politico ovviamente maggiore la decisione presa il 20 febbraio scorso dall’attuale governo “transitorio” (guidato dai militari) che ha consentito il passaggio di due navi iraniane attraverso il canale di Suez.

Da quel momento, sui media locali si sono rincorse notizie su possibili nomine di diplomatici iraniani al Cairo, ma ad oggi queste voci non sono state confermate ufficialmente. Il processo potrebbe subire un’accelerazione con i previsti incontri del ministro degli Esteri iraniano con la controparte egiziana (Nabil el-Arabi), a fine maggio, a latere dell’incontro del movimento dei paesi non allineati a Bali.

Secondo alcuni analisti egiziani, qualora l’Egitto normalizzasse le relazioni diplomatiche con l’Iran, si allenterebbero i suoi tradizionali legami con l’Arabia Saudita, in particolare. “C’è un reale pericolo che la folla distrugga la reputazione egiziana, la sua economia e la stabilità regionale” ha scritto su Gulf News Khalaf al Habtor, a capo di una delle principali famiglie di commercianti di Dubai.

Il ministro degli Esteri egiziano ha voluto lanciare segnali rassicuranti, proprio su questo punto, in occasione della visita saudita di metà marzo: “Abbiamo inaugurato una nuova epoca. L’Iran è un paese come tutti gli altri e la sicurezza delle nazioni del Golfo resta un interesse egiziano”. Più di queste parole, a rasserenare le preoccupazioni dei sauditi è stato però l’atteggiamento cauto tenuto dal Cairo rispetto agli eventi in Bahrein – quando la rivolta della maggioranza sciita è stata soffocata dal governo sunnita con l’aiuto militare di Riad. Dopo un iniziale entusiasmo per la rivolta, il governo militare egiziano ha posto chiaramente come priorità la sicurezza e stabilità dei paesi del Golfo.

Intanto, a mostrarsi preoccupato del riavvicinamento tra il Cairo e Teheran è stato anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha peraltro definito l’Iran un ostacolo alla riconciliazione delle fazioni palestinesi. Per parte sua, l’Egitto sembra deciso a perseguire anche l’altro filone centrale della sua nuova politica estera, cioè quello del processo di riconciliazione interpalestinese. In effetti, fin dal 2006 (quando la vittoria elettorale di Hamas aveva aperto una profonda ferita con Fatah) il Cairo ha cercato di condurre le parti al tavolo negoziale: dopo il fallimento dei piani di riconciliazione proposti dall’Arabia Saudita e poi dallo Yemen, nel 2009 la diplomazia egiziana aveva assunto l’iniziativa convincendo Fatah a firmare un accordo – nonostante il rifiuto di Hamas. Va ricordato infatti che Hamas non era certo ben vista da Mubarak, in quanto vera e propria costola della Fratellanza musulmana, cioè del maggior movimento islamista di opposizione al regime egiziano. Quell’accordo, rimasto sospeso, è stato ora firmato anche da Hamas e dalle altre fazioni palestinesi che si sono ritrovate al Cairo a inizio maggio.

Gli egiziani in questo caso sono stati evidentemente percepiti come mediatori più neutrali. Secondo Mustafa al-Labbad, direttore del centro di studi strategici Al-Sharq, a motivare il Cairo ad avvicinarsi a Teheran è stata proprio l’intenzione di risolvere la questione interpalestinese, visto il sostegno che Hamas riceve dall’Iran. Con tale approccio, l’Egitto sarebbe riuscito a esercitare un’influenza indiretta su Hamas; questo sarebbe dunque uno dei primi frutti tangibili del dopo-Mubarak in politica estera. Un ruolo costruttivo è stato anche svolto dal coinvolgimento della Turchia nel dossier della riconciliazione interpalestinese: Ankara ha chiesto per anni di giocare un ruolo in tale questione, ma Mubarak ha sempre preferito tenerla in disparte.

In realtà, da tempo numerosi analisti descrivono o preannunciano un profondo mutamento dell’equilibrio regionale con la nascita di un nuovo asse Iran-Turchia-Siria che andrebbe a sostituire il tradizionale “triangolo arabo” formato da Egitto-Siria-Arabia Saudita. Gli ultimi eventi suggeriscono piuttosto che l’Egitto post-Mubarak non è disposto a uscire dal gioco e si ispira probabilmente alla politica estera della Turchia. In tal caso, gli obiettivi di breve e medio termine sarebbero due: ridurre le possibili frizioni con i paesi vicini mentre si persegue una politica a tutto campo, e lavorare per una soluzione alla questione palestinese. Questo potrebbe costringere il Cairo a pagare un prezzo salato in termini di rapporti con gli Stati Uniti e ovviamente con Israele, ma un Egitto con un profilo internazionale più dinamico e guidato da un regime sostanzialmente più democratico (esito ancora non scontato) avrebbe senza dubbio un ruolo regionale di primo piano.