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La riconciliazione Hamas-Fatah e il nuovo quadro palestinese

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Hamas e Fatah hanno ufficialmente raggiunto un accordo di riconciliazione il 4 maggio, sancendo la fine di una frattura deleteria per il popolo palestinese che datava dal 2007 (quando Hamas aveva preso con la forza il controllo della Striscia di Gaza). Il testo e le clausole dell’attuale accordo riprendono in sostanza i contenuti di quello del 2009 mediato dal presidente egiziano Hosni Mubarak, firmato allora soltanto da Fatah.

Prima di entrare nel merito dell’intesa, un quesito da porsi è perché proprio ora Hamas si mostri pronta a collaborare con la controparte e a invertire la sua recente politica: “micro-destabilizzazione” territoriale ai confini della Striscia, totale rifiuto di ogni rapporto con Israele, e completo isolamento rispetto all’Autorità nazionale palestinese (ANP). La ragione principale è che il clima politico regionale è cambiato, e si profila ora all’orizzonte la possibilità concreta di un riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese dalle Nazioni Unite a settembre. Perseverare nell’isolamento potrebbe comportare la totale emarginazione politica della leadership di Hamas.

I cambiamenti a livello regionale sono numerosi: in Libano, Hezbollah è penalizzata dal verdetto del tribunale speciale per l’omicidio di Rafic Hariri e impegnata a rifondare la propria credibilità nel paese; la Siria è assorbita dalla repressione sanguinosa delle proprie rivolte interne; l’Iran sembra intenzionato a rilanciare i propri rapporti diplomatici con l’Egitto. Di fatto, tutti i tradizionali alleati regionali di Hamas sono impegnati su altri fronti, se non perduti alla causa.

Vi è inoltre la nuova leadership egiziana, che sembra voler abbandonare la politica di appeasement verso Israele seguita di fatto da Mubarak. La riapertura del valico di Rafah avrebbe come effetto immediato la riapertura di traffici regolari di merci e persone da e verso la Striscia, sancendo di fatto la fine del blocco in vigore dal 2007. Ma ciò comporterebbe ricadute anche sulla mobilità verso la West Bank e il delicato status quo vigente per trent’anni nel Sinai tra Egitto e Israele.

Intanto, la situazione è cambiata anche per l’ANP: le promesse economiche di Salam Fayyad sono state in gran parte soddisfatte, ma di fronte alle rivolte popolari che hanno scosso il mondo arabo, per l’ANP è risultato sempre più difficile posticipare le nuove elezioni e ignorare le manifestazioni che lo scorso 15 marzo invocavano a gran voce proprio l’unità palestinese, sia per le vie di Ramallah che di Gaza. In altri termini, l’ANP non può più eludere la questione della propria legittimità popolare di fronte a un mondo arabo che sta testando i propri governi in termini di credenziali democratiche – come lo stesso Abu Mazen ha ammesso espressamente, in una recente intervista rilasciata ad Al-Ahram Weekly, affermando che la pressione popolare ha avuto un peso sulla sua decisione.

Per ora, l’accordo tra Fatah e Hamas è soltanto una sorta di intesa di fondo, che rimanda ad un momento successivo la discussione dei punti più controversi. L’accordo è composto di un “cappello” che include i principi generali, e la costituzione di cinque comitati tra cui spiccano quello per il rilascio dei prigionieri politici e quello sulla riforma dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tra i punti specifici, invece, si stagliano i seguenti: l’indizione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno – per cui è già prevista la data del 4 maggio del 2012; la fusione graduale tra istituzioni dell’Autorità palestinese e di Hamas e delle rispettive burocrazie; la volontà di porre fine definitivamente al blocco di Gaza; una legge che regoli la presenza delle associazioni donatrici e altre ONG; e il controllo congiunto dell’implementazione dell’accordo siglato al Cairo.

Per entrambe le parti l’accordo pone delicati problemi: l’ANP deve convincere i suoi interlocutori occidentali e i suoi donors – sopratutto gli USA – che l’inclusione di Hamas in un futuro governo tecnico continuerà ad avvenire sotto la guida dell’ANP e nel rispetto delle stesse regole sancite dal Quartetto. È in tal senso cruciale che Hamas rinunci ad atti di resistenza armata almeno per i prossimi 12 mesi – una promessa che Khaled Mashaal è sembrato sottoscrivere dopo l’annuncio che Hamas è disposto a dare a Israele un periodo di prova di 12 mesi (di fatto una tregua) perché riconosca lo stato palestinese.

Quanto al rifiuto categorico di Israele di aprire un dialogo con un governo che includa Hamas, potrebbe essere aggirato soltanto con forti pressioni americane, oltre a una eventuale garanzia egiziana.

Per Hamas, la riconciliazione impone un profondo ripensamento della strategia perseguita finora. Occorre non solo riportare ordine nella Striscia e imporlo alle varie milizie indipendenti che vi sono proliferate in questi ultimi anni (tra cui piccoli gruppi salafisti ed affiliati ad al Qaeda), ma anche (in vista delle prossime elezioni nazionali) recuperare la credibilità politica spesa a senso unico nella “resistenza”. Non a caso il gruppo ha imposto a Fatah un anno di tempo, con il chiaro obiettivo di riorganizzarsi, ed è probabile che la stessa Fatah decida di posticipare anche le elezioni locali indette per il prossimo luglio.

È dunque ancora presto per dire se la riconciliazione avrà successo e se potrà rispettare il calendario approntato al Cairo, ma per i palestinesi si apre una stagione di maggiore protagonismo politico.

Nell’attesa di un riconoscimento delle Nazioni Unite a settembre – tale da modificare la natura del conflitto israelo-palestinese in un classico confronto tra stati – la riunificazione rafforza tre punti-cardine della nuova forma di “resistenza” palestinese: la non-violenza, la cooperazione internazionale e diplomatica in vista del conseguimento di uno stato, e la democraticità interna delle istituzioni.

Israele rischia per la prima volta dal 1967 di subire le decisioni e le azioni della controparte, senza molto leverage politico da opporre: il congelamento dei trasferimenti dei fondi delle tasse palestinesi è una reazione estemporanea, e l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno per adesso dimostrato saggiamente di non voler seguire Israele su questa strada.