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USA-Cina la guerra semifredda

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Per la prima volta dall’insediamento di Barack Obama, Washington discute con Pechino da una posizione di relativa forza e non di debolezza. Non perché la situazione economica degli Stati Uniti sia sostanzialmente migliorata: il problema del debito resta lì, con i dilemmi che pone anche al Paese, la Cina appunto, che più ha investito negli anni scorsi in buoni del Tesoro americani. Ma Obama è politicamente più in forma di quanto sia mai stato dal 2008 in poi; e l’America è psicologicamente più solida. Almeno a breve termine, l’uccisione di bin Laden ha cambiato il clima: per gli Stati Uniti e per la potenza sfidante del XXI secolo.

La Cina lo sa. Il gruppo dirigente comunista/capitalista sa che l’uccisione del capo di al Qaeda in Pakistan cambia qualcosa anche per Pechino. Che ha applaudito alla morte di bin Laden (la Cina ha una propria guerra interna contro il terrorismo islamico); ma che teme per il futuro del Pakistan, suo storico alleato nella competizione con l’India. C’è però qualcosa di più.

La preoccupazione della Cina è che la morte di bin Laden permetta a Washington di scrollarsi più in fretta di dosso le sabbie dell’Afghanistan per dedicarsi alle vere priorità di questo secolo: le priorità sul versante asiatico, dall’Oceano Indiano verso l’Asia orientale. Non più il Grande Medio Oriente, insomma; ma il Grande Oriente, con la Cina al centro. Questo riequilibrio strategico degli Stati Uniti chiuderebbe più rapidamente del previsto la finestra di opportunità di cui Pechino ha goduto dal 2001 in poi. Gli anni in cui l’America, invischiata fino al collo nelle bolle dell’economia e nelle due guerre medio-orientali, ha lasciato spazio al grande ritorno dell’Impero di Mezzo.

La Cina non è nella situazione ideale per vivere questa accelerazione: è in una campagna elettorale in stile confuciano (la successione da una generazione all’altra della leadership, che si compirà a fine anno), guarda agli effetti indiretti della primavera araba (comunque vada a finire) e soprattutto teme i riflessi politici e sociali dell’inflazione – ormai conclamata. Sono fattori che contribuiscono a spiegare la stretta politica interna degli ultimi mesi; in modo più esplicito del solito, l’amministrazione americana sta sollevando in questi giorni, nel Dialogo bilaterale, il nodo dei diritti umani. Anche sul piano economico c’è qualche difficoltà. È vero che la Cina ha retto bene, meglio di tutti, alla crisi finanziaria, aumentando il suo vantaggio competitivo sulle economie occidentali; ma è vero anche che Pechino è alle prese con una revisione obbligata e non semplice del proprio modello di sviluppo. Una fase è finita: la globalizzazione pre-2008, così vantaggiosa per la strategia di crescita degli ultimi decenni, sta esaurendo i suoi margini.

In politica estera, la Cina ha in parte abbandonato la politica di «basso profilo» teorizzata dal grande architetto del miracolo economico, Deng Xiaoping. E ha scelto, soprattutto nel Mar Cinese meridionale, una maggiore assertività, combinata all’aumento del Bilancio della Difesa. L’espansione della Marina militare è uno dei segni di questo raggiustamento; i cui risultati, tuttavia, non sono chiari. Per il momento, è aumentata la preoccupazione dei vecchi alleati asiatici degli Stati Uniti, in cerca di rassicurazioni. In un’Asia orientale temporaneamente senza Giappone, l’America è vista, ancora più che in passato, come una potenza indispensabile del Pacifico.

La tesi esplicita di Washington (e quella implicita di Pechino) è che la partecipazione dell’Esercito cinese al tavolo del dialogo bilaterale – la maggiore novità di questo round – potrà ridurre il tasso di «incomprensioni» reciproche. Se si giudica dalla gestione della crisi nucleare coreana, è un punto vero; che non elimina, tuttavia, le divergenze di interessi sulla sicurezza asiatica.

Un’America più fiduciosa – ma ancora fragile economicamente – e una Cina più preoccupata – in transizione – possono dar vita a un «G/2» stabile ed efficace? La risposta è per ora negativa. Invertendo i fattori rispetto a pochi mesi fa, infatti, il risultato non cambia: la realtà è ancora più vicina a una specie di «G/0» – a una rischiosa insufficienza di leadership globale – che a un duopolio capace di governare un mondo quanto mai complicato. Magari come nucleo duro di un G/20 che ha già dimostrato i suoi limiti. Basta pensare ai discorsi, per ora rimasti tali, sulla riforma del sistema monetario.

Tutto questo non significa affatto che fra Cina e Stati Uniti si prepari necessariamente la guerra fredda del futuro. Nel suo nuovo libro, «On China», Henry Kissinger spiega i rischi ma anche le possibilità di evitare uno scenario che sarebbe catastrofico per le prossime generazioni.

L’idea del G/2 ha sempre irritato l’Europa, che si sente esclusa dal «rapporto bilaterale più importante al mondo» (espressione iniziale dell’Amministrazione Obama, invisa agli europei); ma rischia anche di funzionare da alibi, per un’Europa incapace di assumersi responsabilità internazionali. Proprio mentre si svolge il nuovo round del Dialogo Strategico ed Economico USA-Cina, e quando si riaccende la crisi greca, è bene che l’alibi cada.

Pubblicato sul quotidiano La Stampa il 11 maggio 2011.