Nei nove mesi trascorsi dalla caduta del presidente Mubarak, piazza Tahrir, epicentro della rivolta scoppiata il 25 gennaio scorso, non si è mai spenta del tutto. Ma l’escalation di violenza degli ultimi giorni ha portato televisioni e giornali a parlare dell’inizio di una seconda rivoluzione. In effetti, quella in corso è solo un’altra fase della rivolta di inizio anno.
A scendere in strada il 18 novembre sono state decine di migliaia di manifestanti, soprattutto islamisti mobilitati dalla Fratellanza Musulmana e dai gruppi salafiti. Le proteste si sono concentrate su un documento presentato dal vice primo ministro Ali al-Selmy, in cui i vertici dell’esercito avevano elencato una serie di principi “sovra-costituzionali” che dovrebbero guidare i lavori della futura Assemblea Costituente. Gli islamisti ritengono invece che l’unica istituzione con il diritto di stabilire i principi costituzionali sia la stessa Costituente.
Su una posizione nettamente diversa si sono schierate le istanze secolari che, pur non condividendo tutti i punti del testo, hanno deciso di non partecipare alla manifestazione.
Oltre agli islamisti, il 18 novembre in piazza Tahrir manifestavano anche alcuni dei feriti nei precedenti scontri di strada e i familiari di coloro che vi hanno perso la vita: la richiesta al governo di essere risarciti. Insieme a loro, gli attivisti più irriducibili hanno iniziato un sit-in di protesta contro i tribunali militari e la condotta complessiva dell’esercito.
In serata, quando gli islamisti avevano già abbandonato la piazza, i militari hanno iniziato un’offensiva per sgomberare Tahrir, servendosi anche di lacrimogeni particolarmente potenti, invisibili e con effetti altamente nocivi. Questa escalation di violenza ha fatto indignare molti altri cittadini del Cairo, che hanno deciso a loro volta di scendere in piazza.
Come dallo scorso gennaio, il popolo di Tahrir è politicamente eterogeneo. In prima linea vi sono gli stessi giovani di alcuni mesi fa, ancora senza un leader riconosciuto, ma con slogan comuni, e una richiesta pressante: le dimissioni del governo guidato da Essam Sharaf e soprattutto l’uscita di scena dei militari.
Diversi però sono i numeri, visto che la crisi economica, le tempistiche della transizione, l’instabilità del paese e il livello della violenza hanno scoraggiato molti egiziani a raggiungere Tahrir.
Diverso è poi l’atteggiamento della Fratellanza Musulmana, il soggetto politico attualmente più organizzato e più pronto all’appuntamento con le urne. A inizio anno, questo movimento ha atteso di vedere cosa accadeva in strada prima di aderire alle manifestazioni. In questi giorni invece, dopo aver organizzato la manifestazione del 18 novembre ha deciso di abbandonare la piazza, iniziando nuovamente a negoziare con l’esercito. Questa scelta non è stata però condivisa da tutte le anime della Fratellanza: alcuni membri, soprattutto giovani, hanno criticato la decisione presa dai vertici e sono rimasti per le strade.
Pur criticando ufficialmente la reazione violenta dei militari, i vertici del movimento islamista hanno cercato di difendersi da quanti hanno descritto la loro scelta come opportunista. Secondo Dina Zakaria, membro del partito “Libertà e Giustizia” (il nome assunto dai Fratelli Musulmani in veste partitica), “abbandonando la piazza volevamo evitare che un eccessivo disordine compromettesse lo svolgimento delle elezioni. A rimetterci non sarebbe stato il nostro movimento, ma l’intero paese. E’ stata una decisione costosa, che ci ha fatto perdere qualche voto.”
Opposto invece il comportamento dei partiti che compongono il “Blocco Egiziano”, la forza liberale che si contrappone alla Fratellanza: pur non appoggiando la manifestazione del 18 Novembre, quando hanno visto la reazione violenta dei militari hanno scelto di sostenere i manifestanti chiedendo che le votazioni vengano posticipate di almeno qualche settimana. “Non è possibile pensare che le prime elezioni libere del paese si svolgano in questo clima di guerra. La gente ha paura di uscire di casa. La partecipazione sarebbe molto bassa e questo rischia di compromettere i risultati” spiega Shaiir Ishaq (figlio di Georges Ishaq, fondatore del movimento di Kifaya – il movimento per il cambiamento che già nel 2004 aveva preso le strade del Cairo per opporsi al regime). Ishaq è candidato del partito degli Egiziani Liberi, guidato dal magnate copto Naguib Sawiris.
Per rispondere a quanti da settimane chiedono la sua uscita di scena, il generale Mohammed Hussein Tantawi, capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, è comparso in televisione con un discorso alla nazione. Nel tentativo di recuperare consenso, ha promesso anzitutto la creazione di un nuovo governo e ha avviato consultazioni con le principali forze politiche. Riguardo alla tempistica della transizione, ha annunciato l’anticipo di sei mesi delle elezioni presidenziali, ora previste per fine giungo, confermando che intanto le elezioni parlamentari sarebbero iniziate, come previsto, il 28 novembre. Tantawi ha infine annunciato che si terrà un referendum per chiedere direttamente agli egiziani se i militari debbano rinunciare al loro ruolo politico e tornare nelle caserme. Dopo aver presentato le scuse alle famiglie delle vittime delle violenze, il 24 novembre si è sciolto il giallo sul nome del nuovo primo ministro, Kamal Ganzuli, che dal ’96 al ’99 aveva già guidato un esecutivo sotto la presidenza di Mubarak. Dopo lo scoppio della rivolta del 25 gennaio, in un’intervista televisiva Ganzuli aveva preso le distanze dal vecchio rais, e alcune fonti lo presentavano come un possibile candidato alle presidenziali.
Il 24 novembre è anche iniziata una tregua tra militari e manifestanti, che non hanno però accolto positivamente la nomina del nuovo primo ministro – il quale ha ben poco di “nuovo”. Sono dunque proseguite le richieste che i militari escano di scena.
In piazza sono sempre più numerosi quanti pensano che a far cadere Mubarak sia stato un colpo di stato guidato proprio dai militari, i quali ora non si dimostrano realmente disposti a cedere il potere. Si diffonde anche l’idea che andare al voto mentre i militari sono ancora al potere, e dopo questo ulteriore bagno di sangue, non abbia alcun valore: per completare la rivoluzione potrebbe ormai essere indispensabile sostituire i militari con una giunta di civili.