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La transizione “morbida” nell’establishment cinese

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Una sessione plenaria è un’ottima occasione, per chi aspira ad entrare nel Comitato centrale del Partito comunista cinese, di proporre in modo sottile la propria candidatura. E, in un sistema politico poco trasparente, il comunicato rilasciato dall’Agenzia statale Xinhua rivela molto poco di quanto accaduto nella quattro giorni a porte chiuse della Sesta sessione plenaria del Comitato centrale del Pcc, che si è conclusa il 18 ottobre.

Intanto, l’economia mondiale guarda alla Cina per risollevarsi, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama chiede a Pechino di lasciare che lo Yuan si apprezzi seguendo le logiche di mercato, il Fondo monetario internazionale pubblica una lista di ben 29 raccomandazioni alle autorità cinesi temendo che un rallentamento della crescita o una bolla immobiliare possano portare a una crisi dei credito con ricadute mondiali. Il problema è, come spiega un’analista finanziario che lavora in Cina dal 1996, che «l’economia cinese dipende in tutto e per tutto dai politici, che la governano come vogliono, anche diffondendo false informazioni se necessario, e può cambiare in ogni momento». Molto dunque sembra davvero essere  nelle mani dei vertici del Partito comunista cinese che, nel 2013 (dopo il XVIII Congresso nazionale che si terrà l’anno prossimo) subirà un profondo ricambio: sette dei nove membri che compongono il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare andranno in pensione e verranno sostituiti. Tra questi, l’attuale segretario Hu Jintao, 70 anni, il numero due del partito Wu Bangguo, 71, e il premier Wen Jiabao, 70. Dovrebbero lasciare il posto  anche il numero 4 del partito Jia Qinglin, 72, il numero 5 Li Changchun, 68, e i numeri 8 e 9 He Guoqiang (69) e Zhou Yongkang (70). Inoltre, dei restanti sedici membri che compongono il Politburo, una decina dovrebbero passare la mano. Xi Jinping e Li Keqiang, gli unici due membri dell’attuale Comitato permanente che dovrebbero essere riconfermati, sembrano in posizione favorevole per diventare rispettivamente il nuovo segretario del partito comunista e il nuovo premier – come conferma Guido Samarani, docente di Storia della Cina contemporanea all’università Ca’ Foscari di Venezia.

Restano comunque molte incertezze su chi riuscirà a farsi strada fino al Comitato permanente. Come ha fatto notare Willy Wo-Lap Lam, ex direttore del South China Morning Post, sono due le fazioni che si scontrano all’interno del partito: la Lega dei giovani comunisti (Communist Youth League), guidata da Hu Jintao, e la Banda dei giovani principi (Gang of Princelings), nome che allude alla discendenza della vecchia nomenklatura.

Nell’ambito di questa seconda fazione, uno dei personaggi più attivi e influenti, è Bo Xilai. Già membro del Politburo, a 62 anni vorrebbe entrare a fare parte del sanctum del Comitato permanente. Carismatico, è diventato tra i politici più quotati grazie a una campagna populista che punta a un ritorno al passato, rifacendosi esplicitamente alla figura di Mao per combattere il crimine organizzato e la corruzione che affliggono tanto la società quanto il partito. Nonostante l’entusiasmo suscitato in alcune città dalla sua campagna (che ha adottato lo slogan chang hong, “cantare canzoni rosse”), sembra difficile che il partito dia il suo imprimatur alla rinascita della cultura maoista. Mao è tuttora citato nelle prime righe della Costituzione cinese, ma è stato accantonato definitivamente dalle parole di Deng Xiaoping: «Il compagno Mao ha fatto il 70% delle cose giuste e il 30% di quelle sbagliate». Il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale sono stati sconfessati e in Cina si può, per non dire si deve, parlarne male il più possibile. Un ulteriore indizio della freddezza con cui sono state accolte le idee di Bo Xilai è il comunicato finale della Sessione plenaria, dove si parla sì di “elevare gli standard culturali del popolo” e di “propagare la cultura cinese per costruire una società socialista culturalmente forte” ma non si fa certo alcun riferimento alla «cultura rossa» della tradizione maoista. Infine, né Hu Jintao né Wen Jiabao hanno mai visitato dal 2007 il centro finanziario della Cina Occidentale dove Bo ha la sua base di potere. Se Bo Xilai non dovesse riuscire a emergere, nella medesima fazione avrebbe buone possibilità Yu Zhengsheng, segretario del Partito a Shanghai.

Tra i membri dell’altra fazione, la Lega dei giovani comunisti sembra sicuro l’avvenire del 56enne Li Keqiang. Gli articoli pieni di elogi che gli organi di stampa statali gli hanno riservato non dovrebbero dare adito a dubbi. Molti complimenti sono stati riservati a Li per il suo servizio nell’Henan tra il 1998 e il 2004, altri per la sua grande capacità di stringere rapporti sia con l’Oriente che con l’Occidente e attrarre “fondi e tecnologie”, altri ancora per i successi ottenuti nel campo della produzione agricola. I ripetuti incontri di quest’anno con i leader di entrambe le Coree  sono apparsi, infine, come un possibile preludio alla sua ascesa al ruolo di premier.

Ad essere uscito vincitore dall’ultima Sessione plenaria sembra essere anche Liu Yunshan, che non fa parte delle due maggiori fazioni  ma che in qualità di «vero conservatore, fedele all’ortodossia» potrebbe essere premiato dai tanti riferimenti all’importanza della “cultura della sicurezza” nel futuro cinese.

Como sottolineano gli analisti politici, «il Partito comunista cinese non ama le sorprese e permette solo atterraggi morbidi». Per questo, per quanto Xi Jinping e Li Keqiang vengano definiti, da fonti ben informate, come «aperti e ben disposti al cambiamento», è difficile che gli appelli a una maggiore democrazia interna del partito fatti dal presidente Hu e dal premier Wen vengano ascoltati nel breve termine. Il futuro della Cina è imperscrutabile, ma è per ora impossibile l’abbandono del sistema del partito unico.