Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di autorizzare “tutte le misure necessarie per proteggere i civili sotto minaccia di attacco in Libia”. È una decisione presa ai sensi del capitolo VII, il capitolo della Carta dell’ONU che autorizza l’uso della forza. Quale forza? La Risoluzione esclude in modo esplicito la creazione di un contingente di occupazione in Libia (gli stivali sul terreno, insomma); mentre prevede una no-fly zone e altre misure militari, a cui dovrebbero partecipare, insieme a USA, Francia e Gran Bretagna, paesi della Lega araba.
Sul piano politico la Risoluzione è un successo per il fronte interventista, anche se si tratta di una decisione tardiva. Dopo avere intimato a Gheddafi di lasciare il potere, Stati Uniti ed Europa non potevano continuare ad assistere senza reagire alla contro-offensiva del raìs di Tripoli. Le condizioni fissate da Barack Obama per potere passare all’azione – una risoluzione del Consiglio di sicurezza, l’appoggio della Lega araba – hanno sacrificato tempo prezioso, dando respiro a Gheddafi. Ma Washington ha evitato il rischio, dopo l’Iraq, di un riflesso totalmente isolazionista.
L’Europa si è ancora una volta divisa, perfino sul voto della Risoluzione. La decisione della Germania di astenersi, insieme alla Cina e alla Russia, dimostra quanto Angela Merkel sia prigioniera delle scadenze elettorali interne e al tempo stesso sia incline a una politica estera mercantilista. Nei grandi equilibri internazionali, Berlino tende ormai a ritrovarsi molto spesso distante da Washington e più vicina alla Cina (nel G20) o alla Russia (sulle questioni energetiche e la sicurezza europea).
Sul fronte arabo, l’Egitto – paese confinante della Libia – ha escluso una partecipazione attiva all’attuazione della Risoluzione: troppo complicata la transizione interna perché i militari egiziani possano rischiare un’operazione del genere. Dovrebbero invece partecipare il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti. Garantendo una copertura politica a Washington, i paesi del Golfo si sentiranno più liberi di gestire senza pressioni americane i rispettivi fronti interni. Come dimostra la repressione in Bahrein, la primavera araba sta già diventato l’inverno, nella penisola arabica.
Ancora più complicato il fronte militare. Una prima questione è la rapidità con cui gli Stati Uniti e la NATO riusciranno ad entrare in azione: fattore decisivo, visto che le forze di Gheddafi sono ormai prossime a Bengasi. Secondo stime di Stratfor, appare poco credibile che strikes occidentali possano cominciare nelle prossime ore, come affermato da fonti francesi.
Un secondo interrogativo cruciale è se una no-fly zone decisa quasi fuori tempo massimo e limitata nel suo mandato possa raggiungere gli obiettivi espliciti – la protezione della popolazione civile – ed impliciti – la sconfitta di Gheddafi. Difficile dimenticare il precedente della no-fly zone creata delle Nazioni Unite in Bosnia, nel 1992. Era ancora in vigore nel 1995, al momento del massacro di Srebrenica.
Se la no-fly zone e bombardamenti mirati non riusciranno a piegare le forze di Gheddafi, che hanno ormai attraversato la lunga fascia costiera da Tripoli a Bengasi, la coalizione occidentale dovrà cominciare a colpire direttamente le unità libiche. Da operazione di protezione della popolazione civile, l’intervento occidentale “scalerà” a intervento aperto contro il raìs di Tripoli. Che reagirà, sia contro i ribelli dell’Est che all’esterno.
Per l’Italia, la situazione è particolarmente delicata. Roma ha offerto le sue basi per l’attuazione della no-fly zone; e intende partecipare ad eventuali raids militari. L’Italia sta cercando di bilanciare i propri interessi nel paese (anzitutto gli accordi petroliferi) con la sua posizione nella NATO. Una volta varcata la soglia dell’intervento militare, questa ricerca di equilibrio diventa molto più difficile. Ed aumenta la vulnerabilità dell’Italia sia agli effetti della guerra libica (nuovi flussi di rifugiati) che ad altre, possibili ritorsioni di Gheddafi.
In conclusione: la no-fly zone è una decisione essenzialmente politica, che salva in corner la credibilità di governi occidentali che avevano dichiarato “finito” il raìs di Tripoli. L’intervento militare occidentale potrà forse ritardare la vittoria di Gheddafi. E salvare i ribelli di Bengasi. Ma potrebbe seguire un conflitto prolungato.
Sarebbe, da tutti i punti di vista, lo scenario peggiore per il nostro paese.
Esistono due altre alternative: la prima è che la pressione generata dalla decisione dell’ONU e dall’attuazione della no-fly zone spinga il colonnello a trattare subito un cessate il fuoco. Difficile contare troppo su un esito del genere, che l’Italia però non esclude e che porterebbe probabilmente a una spartizione di fatto della Libia.
La seconda è che la no-fly zone sia solo il primo passo di un intervento militare su più larga scala. Un Gheddafi “nemico” e ancora in sella è una prospettiva troppo costosa e rischiosa per l’Europa. La decisione tardiva sulla no-fly zone avrà avuto senso solo se produrrà la caduta finale del raìs.