international analysis and commentary

L’ipotesi del declino americano e i suoi limiti

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Questa volta il declino degli Stati Uniti è reale, “for real”, proclama l’influente giornalista del Financial Times Gideon Rachman. Il fatto che troppo spesso in passato si sia gridato “al lupo”, argomentano Rachman e molti altri con lui, induce a sottovalutare la portata dell’indebolimento relativo e assoluto degli USA. Perché le difficoltà dell’America sono strutturali e profonde; perché la crisi del 2008 le ha acuite e cronicizzate; perché, infine, vi è una parte del mondo che continua a correre, a rafforzarsi e a sfidare il primato statunitense.

Vari elementi sono utilizzati dai nuovi “declinisti” per sostanziare la loro interpretazioni. Sintetizzando, l’interpretazione declinista poggia oggi su cinque grandi matrici. La prima è ovviamente quella economica. Negli Stati Uniti dell’ultimo trentennio si è determinata una condizione quasi permanente di doppio deficit, esterno e interno. Quello che un tempo era un “impero della produzione” – un modello di modernità centrato sull’impareggiabile efficienza e produttività del suo sistema industriale – si è trasformato in un “impero dei consumi”: un soggetto che consuma in forma forsennata e bulimica, e lo fa solo grazie a livelli d’indebitamento, pubblico e privato, senza precedenti. Il calo dei risparmi privati drena risorse dagli investimenti; esigenze diplomatiche e l’uso del mercato come strumento di egemonia giustificano delocalizzazioni produttive e contribuiscono a ridurre il peso di un settore manifatturiero sempre meno competitivo; più di tutto, l’alto debito viene finanziato da quei soggetti esterni – Giappone e Cina su tutti – ricchi di valuta statunitense e interessati a sussidiare la capacità di consumo degli Stati Uniti. La rivoluzione tecnologica degli anni Novanta mise temporaneamente la sordina a questo intrinseco elemento di fragilità del primato americano; gli eccessi finanziari che l’accompagnarono e graduale riduzione del del suo impatto erano destinati a ridurne gli effetti nel tempo e a riproporre comunque queste contraddizioni. Contraddizioni acuite, infine, dalla fragilità e obsolescenza di una rete infrastrutturale – strade, ferrovie, sistema di trasporti pubblici – che sconcerta qualsiasi osservatore, specie se comparata con quella di economie parimenti avanzate, dalla Germania al Giappone.

La seconda matrice del presunto declino americano è quella militare. Una determinante della potenza, l’hard power militare, che pone gli Stati Uniti in una categoria senza pari o potenziali sfidanti. Ma anche una categoria che rivela una decrescente spendibilità. La sofisticata panoplia high tech di cui dispongono gli Stati Uniti è di scarsa utilità in guerre di tipo asimmetrico come quelle condotte dalle forze armate statunitensi nell’ultimo decennio. Come per qualsiasi democrazia, i costi e i sacrifici imposti dalla guerra diventano sempre meno tollerabili per l’opinione pubblica statunitense. Per essere combattuta, questa guerra deve divenire il più possibile invisibile, delegata a contractors della cui sorte lo stato non è chiamato a render conto e anestetizzata dai racconti di giornalisti embedded. Nel mentre, l’incontrastato dominio militare statunitense comincia lentamente a essere eroso: da paesi che sfidano la comunità internazionale, cercando di dotarsi armi nucleari e del potere deterrente che esse garantiscono; da potenze – su tutte la Cina – che investono sempre più nella difesa, con l’obiettivo di pareggiare il primato di Washington quantomeno nei teatri regionali di proprio interesse.

Terzo fattore che secondo i “declinisti” concorre all’indebolimento statunitense è quello che per convenienza potremmo definire ideologico. Il soft power abilmente dispiegato dagli Stati Uniti nel corso dell’ultimo secolo si starebbe vieppiù assottigliando. Un certo modello di sviluppo sarebbe stato screditato dagli eccessi e dai fallimenti degli ultimi anni; a sua volta, la storica capacità americana di esercitare in forma consensuale e multilaterale la propria egemonia è stata danneggiata da eccessi unilateralisti e dal rozzo nazionalismo che nell’ultimo trentennio ha troppo spesso dominato il discorso pubblico e politico negli Stati Uniti.

Un discorso nazionalista e provinciale che ci porta alla quarta matrice del declino americano, per come questo viene presentato oggi: quella politica. O, più precisamente, quella legata a un sistema politico farraginoso e disfunzionale, tanto lento e macchinoso nel momento della deliberazione e della scelta quanto polarizzato e radicalizzato negli scontri e nelle contrapposizioni. Un sistema politico, quello statunitense, condizionato da un ciclo elettorale di fatto senza tregua e da un sistema dell’informazione che si è fatto barbaro e superficiale, dominato com’è da demagoghi partigiani e da tempi ristrettissimi, che premiano l’urlo sul ragionamento, la banalizzazione sull’approfondimento.

Quinto e ultimo aspetto sottolineato dai tanti “declinisti”, liberal e conservatori, è quello morale. Trent’anni di relativismo morale e/o d’individualismo sfrenato, si afferma, hanno spappolato la società statunitense: recidendo reti di rapporti sociali; legittimando forme di diseguaglianza che hanno riportato le lancette indietro di un secolo; creando un pulviscolo di mille Americhe, incapaci di comunicare le une con le altre.

Sono analisi e spiegazioni, quelle che informano il nuovo declinismo, nelle quali convivono stereotipi e verità, dati inoppugnabili e ideologiche semplificazioni. Le fragilità degli Stati Uniti di oggi sono indiscutibili. Ma lo è anche la persistenza di straordinari elementi di forza, su tutti la vitalità di una società capace di grandi cambiamenti, di sostituire Bush con Obama, e di mantenere e aggiornare forme di primato inattaccabili, dalla ricerca universitaria all’innovazione tecnologica.

Il problema non è tanto se gli USA siano, nel contesto internazionale odierno, più deboli di quanto lo fossero dieci anni fa. Un’analisi spassionata delle determinanti classiche della potenza ci dice infatti che lo sono, e su questo non ci sono dubbi. Il problema è la validità e utilità stessa della categoria assai abusata di “declino”. Una categoria rigida, che aiuta a leggere le relazioni internazionali, e la posizione degli USA, in modo al meglio parziale e al peggio fuorviante. Perché poggia su un modo binario – o si scende o si sale – di concepire la forza relativa di uno stato e di come questa collochi lo stesso nella gerarchia globale di potenza. E perché, di conseguenza, fa del sistema internazionale una sorta di contenitore statico e immutabile, dove la somma delle potenze e delle difficoltà porta sempre a zero. Una situazione nella quale, in altre parole, per ogni vincitore vi deve per forza essere uno sconfitto.

Un approccio ciclico e binario, basato sull’antitesi ascesa/declino, finisce per rimuovere complicanze, opacità e contraddizioni. Quelle contraddizioni che invece connotano tanto il sistema internazionale quanto il modello di egemonia costruito dagli Stati Uniti nell’ultimo trentennio. Una “egemonia tramite interdipendenza”, nella quale gli USA ricostruivano e ripensavano il loro primato internazionale, dopo la crisi (e il conclamato declino) degli anni Settanta. E lo facevano per il tramite di quei fattori che oggi vengono agitati da chi, di nuovo, proclama il destino d’ineluttabile declino degli Stati Uniti: il rilancio degli investimenti e della ricerca militare; un vorace mercato da cui il resto del mondo infine dipendeva; la capacità di attrarre investimenti con cui finanziare una nuova, straordinaria rivoluzione tecnologica; il ricorso a una retorica della grandezza nazionale, non di rado semplicistica e greve, ma funzionale a mobilitare l’opinione pubblica interna a sostegno di una politica estera attiva, globale e inevitabilmente onerosa. Grazie a questi elementi gli USA hanno fatto (e continuano a fare) egemonia; per colpa di essi gli USA sono divenuti più fragili e vulnerabili. In un mondo più complesso e globalizzato, dove sono andate ad esaurirsi molte delle condizioni alla base dell’ascesa statunitense, ma dove non esiste (e forse non può esistere) ancora alcun soggetto capace di relazionarsi alla pari con il gigante americano.