Sotto la spinta degli Stati Uniti, la “diplomazia nucleare”, sta conoscendo una fase di grande effervescenza. Su questo sfondo, la Cina si è mossa con cautela ma anche con una notevole capacità assertiva, mostrando abilità negoziale e chiarezza di obiettivi, tra conferenze, verifiche dei trattati e revisioni di linee strategiche.
Il più importante tra i recenti sviluppi nel campo degli armamenti nucleari e del loro controllo cui Pechino è stata chiamata a rispondere è la firma, l’8 aprile, del trattato START 2 tra Washington e Mosca. Seguono: le nuove linee strategiche del presidente americano Barack Obama sull’uso della forza nucleare; le manovre intorno al dossier iraniano; i problemi della sicurezza globale che Obama ha voluto sottolineare con il summit di Washington del 12 e 13 aprile, e che per la Cina inglobano anche gli equilibri nell’Asia centrale, crisi del Khirghizistan compresa; infine la conferenza quinquennale di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) in maggio.
La Cina dispone di un arsenale atomico modesto se paragonato a quello americano: tra le 200 e le 300 testate (contro le oltre 5000 degli USA che per di più conservano nei loro magazzini “weapons-grade metal” per ben 25mila testate). I dati sono presuntivi – i più attendibili vengono dal SIPRI di Stoccolma – perché i cinesi considerano la segretezza un elemento essenziale del loro dispositivo di difesa. Si sentono circondati da potenze nucleari: la Russia e l’India, senza contare il Pakistan e la Corea del Nord in qualche modo inseribili tra gli amici. In questa fase particolare avvertono poi il pericolo della nascita di un “condominio russo-americano” che può rilanciare il ruolo di Mosca come superpotenza e per di più rischia di diventare una tenaglia con l’aggiunta dell’India, mettendo in discussione i fondamentali interessi di sicurezza della Cina.
L’India infatti continua ad essere percepita come una minaccia a Pechino, che anche per questo ritiene strategico il proprio sostegno militare al Pakistan. Gli accordi stipulati dal presidente con Nuova Delhi da George W. Bush, e confermati da Obama, in deroga se non in contrasto col TNP, hanno molto innervosito la Cina. E’ vero che quegli accordi riguardano la cooperazione nel campo civile, ma “liberano”strumenti e risorse che potrebbero essere usati dagli indiani per modernizzare e ampliare il loro arsenale.
Lo START 2, visto da Pechino come una banale ratifica della realtà di fatto per quanto concerne sia le testate consentite e quelle da eliminare sia gli insostenibili costi di pletorici arsenali, genera dunque qualche preoccupazione, al di là della inevitabile soddisfazione di facciata. Preoccupazioni forse ancora maggiori ha creato la Nuclear Posture Review diffusa da Washington il 10 aprile, vista come un allarmante richiamo alla intimidazione nucleare e perfino un colpo inferto al TNP. Dalla prospettiva cinese, le regole di ingaggio nucleare asserite da Obama fanno infatti dell’atomica uno strumento non solo di deterrenza ma anche di minaccia. Per di più – si è sottolineato a Pechino – tale minaccia è rivolta esplicitamente contro chi non rispetta il TNP dopo avervi aderito, anche se non dispone di armi nucleari. In questo modo, fanno notare a Pechino, si conferisce una certa legittimità a chi al TNP non ha mai aderito.
Allo schema americano ha indirettamente risposto in un’intervista il generale Xu Guangyu, membro della China Arms Control and Disarmament Association, secondo il quale il ricorso all’atomica – all’interno di una dottrina definita “deterrenza e non minaccia” – resta un second strike in caso di attacco nemico, e in nessun caso contro aggressori che non siano potenze nucleari. A scopo puramente difensivo, a sentire i cinesi, è poi anche l’aumento della capacità di “intervento rapido” grazie ai nuovi sottomarini della classe Jin (non è noto se due o quattro), in grado di lanciare missili balistici intercontinentali a testata multipla. Non negoziabile è nel contempo lo sviluppo di nuovi sistemi di lancio e di missili a combustibile solido, che secondo i cinesi – in contrasto con russi e americani – non vanno inclusi nelle discussioni sugli armamenti nucleari, da limitare alle testate atomiche. “L’esperienza insegna – ha detto il generale Xu – che il sistema più valido per avere una capacità di second strike viene dai sottomarini e dalla efficienza dei missili”.
Su questi temi, più che con gli Stati Uniti è con la Russia che monta la tensione. Sebbene Pechino e Mosca mantengano per ora un atteggiamento pragmatico, come mostra ad esempio la relativa sintonia sulla questione iraniana: qui la partita è soprattutto con Washington. L’Iran per la Cina non è un assillo come lo è per Washington, e ciò rappresenta un vantaggio notevole. Pechino ha usato la disponibilità a prendere in esame le fortissime pressioni degli americani (per un consenso al varo di nuove sanzioni contro Teheran) come merce di scambio per riequilibrare i suoi rapporti con gli Stati Uniti dopo un periodo di crescenti tensioni (Taiwan, Tibet, yuan sottovalutato, ecc.). Nella sostanza però la Cina non ha mutato di una virgola la sua posizione, più volte riassunta in questi termini dal portavoce del ministero degli Esteri: “Dialogo e negoziati con metodi diplomatici costituiscano la migliore via per trovare una soluzione”. Fuori dall’ufficialità il quadro è fatto – come ha sintetizzato Su Jingxiang, un ricercatore dell’Istituto cinese per gli affari internazionali citato da Asia Times – da “interessi differenziati che rendono difficile un vero coordinamento tra le grandi potenze”. E infatti la Russia non ha mai pensato di bloccare la costruzione della centrale atomica di Bushehr) e la Cina sta continuamente accrescendo la sua presenza in Iran.
Con la Repubblica islamica Pechino ha buon gioco nel trincerarsi dietro i principi base della sua politica estera: non ingerenza; appoggio, proprio in nome dei dettami del TNP, a chi voglia dotarsi del nucleare civile (quei dettami invece da lungo tempo violati fornendo assistenza nucleare al Pakistan, non firmatario del Trattato); approccio “terzomondista”. Pur aspirando al ruolo di superpotenza, infatti, la Cina ama ancora mostrare l’immagine di difensore dei diritti dei Paesi in via di sviluppo. Una immagine cui giova chiedere il pur utopistico disarmo nucleare globale piuttosto che, come fa ora Obama, una maggiore attenzione alla non proliferazione e alla messa in sicurezza di tutto il materiale fissile.
Del resto, per Pechino è facile evidenziare il “doppio standard” che indebolisce la credibilità degli Stati Uniti: in particolare, i rapporti tra Usa e Israele (che detiene tra 200 e 400 testate secondo la Federation of American Scientists) mal si armonizzano col TNP. La Cina non ha invece remore a chiedere che anche lo Stato ebraico aderisca al Trattato e a sponsorizzare l’idea di un’area denuclearizzata – tema tornato alla ribalta proprio in questi giorni su iniziativa dell’Egitto.
Di essere una grande potenza la Cina si ricorda quando, per determinare la sua “politica iraniana”, sfodera l’argomento della difesa degli interessi nazionali, che oggi più che mai si concentrano sul petrolio. In merito è significativo che il mese scorso siano arrivate in Iran le prime forniture cinesi di benzina, senza le triangolazioni degli anni precedenti: 600mila barili venduti dalla Chinaoil e altri contratti in gestazione con la Sinopec Corp. Non si può neppure escludere che l’accordo Iran-Turchia-Brasile (annunciato il 16 maggio) per l’arricchimento all’estero dell’uranio, sia anche figlio delle “amichevoli” pressioni cinesi su Teheran.