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La battaglia per il presidente della Commissione europea

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Le varie ragioni di fragilità dell’Unione Europea si sono intrecciate, appena terminato il conteggio dei voti alle elezioni parlamentari di fine maggio, attorno alla nomina del nuovo presidente della Commissione, l’istituzione forse più cruciale dell’UE. Secondo l’accordo pre-elettorale tra i principali partiti europei, il “candidato di punta” del partito che avrebbe preso più seggi sarebbe stato il prescelto per il posto che José Manuel Durão Barroso lascerà vacante in novembre, e che di solito viene assegnato poco dopo le elezioni europee. Ciononostante, il nome di Jean-Claude Juncker, capolista dei popolari del PPE e vincitori del voto, è tutt’altro che unanimemente accettato.

Chi comanda allora in Europa? La Commissione, formata da personalità insigni ma non elette, scelte dai paesi membri? Il Consiglio (in una delle sue varie articolazioni: Consiglio europeo, Consiglio dei Ministri, Eurogruppo), composto dai rappresentanti dei governi nazionali? O forse il Parlamento, unico organo eletto dal popolo (con poteri ora accresciuti), dove siedono i rappresentanti dei partiti europei? La vita istituzionale della Comunità prima, e poi dell’Unione Europea, è sempre dipesa dall’oscillazione del pendolo dei rapporti di potere tra questi diversi centri decisionali. L’Unione infatti è regolata sì da una serie di trattati che disciplinano specificatamente le regole delle istituzioni comuni, ma si basa anche, in maniera diffusa, su prassi consolidate e norme non scritte.

Le attribuzioni e il ruolo di quello che è chiamato il “governo della UE”, sono davvero peculiari: capaci di espandersi o ridursi, all’interno dell’intrico politico di Bruxelles, a seconda della forza o della debolezza degli altri attori in gioco.

La Commissione può così limitarsi ad agire come organo tecnico-esecutivo, occupandosi principalmente obbedire al volere degli Stati riuniti nel Consiglio e controllando il rispetto dei principi economici prescritti dai Trattati. Oppure può assumere una funzione di indirizzo tecnico-politico nell’ambito del rafforzamento dell’integrazione – come accadde sotto la presidenza di Jacques Delors (1984-94), tra i motori principali del trattato di Maastricht – attraverso un utilizzo attivo dell’iniziativa legislativa, di cui gode in esclusiva a livello comunitario. La presidenza Barroso (2004-2014) ha certamente indebolito la Commissione, cioè il governo “sovranazionale” dell’UE, a favore del Consiglio, cioè dei governi degli Stati membri. Contemporaneamente, a partire dal 2009 e soprattutto dalla nuova attuale legislatura, sono aumentate in maniera considerevole le attribuzioni del Parlamento. Le elezioni hanno visto sì la crescita delle forze euroscettiche, ma le forze politiche classiche e di orientamento europeista sono ancora egemoni: popolari, socialisti e liberali hanno insieme 466 seggi su 751, la maggioranza assoluta.

Sono ora questi due organi – Consiglio e Parlamento – ad essere premiati dal pendolo, e a disputarsi quindi il controllo della Commissione, a partire dalla nomina del suo presidente. Due organi nati nello stesso momento: nel 1979, l’elezione diretta del Parlamento fu ottenuta dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, in cambio dell’istituzionalizzazione del Consiglio – che fino ad allora si riuniva in maniera informale.

Stando ai Trattati in vigore, il nome del presidente della Commissione dev’essere indicato dal Consiglio, e il Parlamento ha esclusivamente la facoltà di accettarlo o respingerlo. Tuttavia, con l’accordo sui “candidati di punta”, i partiti europei hanno compiuto una vera forzatura senza precedenti di questo principio: l’obiettivo è che sia sì il Consiglio a indicare il nome, ma solo scegliendo dalla rosa proposta dai partiti e legittimata dal voto popolare. Si tratta di una mossa che può cambiare in profondità l’attuale equilibrio di poteri.

Se le elezioni di maggio fossero state elezioni “normali”, il tentativo sarebbe probabilmente andato a buon fine senza intoppi. E invece le urne hanno visto, in alcune aree, la vittoria di forze apertamente contrarie all’Unione. I popolari di Juncker sono stati sì il partito più votato, ma con un’affermazione davvero deludente: tra i grandi paesi raccolgono un buon risultato solo in Germania, mentre perdono terreno in Spagna e Francia, e subiscono una disfatta cocente in Italia e Regno Unito. Solo il contemporaneo arretramento di socialisti e liberali consente al PPE di essere ancora il gruppo più numeroso a Bruxelles.

Jean-Claude Juncker è indebolito non solo dal risultato, ma anche da suo profilo personale. Il suo passato di ex premier lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo, ossia del consiglio dei ministri dell’economia dell’area euro, offre l’impressione di un grigio burocrate, percepito tutt’altro che vicino ai cittadini – nonostante l’indubbio europeismo.

Comunque, anche socialisti e liberali si sono dichiarati pronti ad appoggiarlo, rendendolo il candidato ufficiale del Parlamento. Allo stesso tempo il Consiglio, per bocca del suo presidente Herman Van Rompuy, si è detto contrario alla scelta – dunque contrario all’atto di forza del Parlamento sui governi nazionali, che finora avevano avuto sempre l’ultima parola. La scelta del Consiglio è attesa entro la fine di giugno.

L’opposizione più forte è arrivata dal premier inglese David Cameron, con l’appoggio di Svezia, Danimarca e Paesi Bassi. La Germania di Angela Merkel e, più sorprendentemente, la Francia di François Hollande sono invece i principali sostenitori di Juncker nel Consiglio. D’altronde, l’ex premier lussemburghese dovrà per forza includere anche diversi esponenti socialisti nella sua eventuale futura Commissione: il sostegno parlamentare di popolari e liberali, da solo, non sarebbe infatti sufficiente.

In seno al Consiglio, dunque, torna a riproporsi lo scontro anglo-tedesco che negli ultimi anni, scopertamente o meno, ha caratterizzato l’Unione Europea. David Cameron ha tentato in ogni modo di bloccare le innovazioni istituzionali – come il Fiscal Compact o l’unione bancaria – promosse dall’UE a trazione tedesca. Innovazioni che sarebbero certamente rafforzate dalla nomina di Juncker. Il premier inglese ha deciso di assecondare l’orientamento euroscettico più forte che mai nell’opinione pubblica britannica, fino a promettere un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea: a Londra si fa mostra di ritenere possibile l’idea di una restituzione delle competenze cedute a Bruxelles e anche di una rinegoziazione degli accordi economici.

La Cancelliera tedesca è convinta al contrario che il livello di integrazione economica e politica, anche se gradualmente, debba crescere. Angela Merkel non è certo felice che il Consiglio, perda la possibilità di influire sulla composizione della Commissione a vantaggio del meno controllabile Parlamento. I suoi elettori però, e anche i partner di coalizione dell’SPD, non le perdonerebbero una sconfessione del nome di Jean-Claude Juncker, sostenuto in campagna elettorale e cardine degli accordi di governo in Germania con i socialdemocratici di Martin Schulz. Questa staffetta di competenze tra Consiglio e Parlamento, di portata storica – per la prima volta il collegio dei capi di Stato e di governo rinuncerebbe a una delle sue prerogative più decisive – avverrebbe dunque per prassi: il dettato dei Trattati, ufficialmente, non sarà comunque modificato.

L’obiettivo tedesco – persuadere la maggioranza dei governi europei ad appoggiare Juncker – è facilitato dal consenso di Hollande. Londra sta cercando in ogni modo di spezzare il rinnovato asse tra Parigi e Berlino, che la isolerebbe drammaticamente sullo scenario continentale, soprattutto nel caso di un voto palese all’interno del Consiglio. Un’opzione a cui Angela Merkel sembrerebbe pronta. E proprio per rendere questa ipotesi più praticabile, cioè meno “tedesca”, i nomi alternativi circolati negli ultimi giorni sono tutti francesi: Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, e Pascal Lamy, ex direttore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). L’esito di questa battaglia indicherà chiaramente la direzione, i protagonisti e i decisori della politica europea nei prossimi anni.