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Un nuovo momento della verità in Medio Oriente: epicentro Baghdad

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In queste ore alcuni autorevoli commentatori, tra i quali ex generali del Pentagono (come James “Spider” Marks), ricordano l’obbligo morale degli Stati Uniti verso l’Iraq; altri non meno prestigiosi protagonisti, si pensi a Tony Blair, negano categoricamente una responsabilità anglo-americana nell’inasprimento della crisi in corso.

Barack Obama, coerente coi metodi di politica estera sin qui adottati, ha fatto capire al primo ministro Al-Maliki e al mondo intero come la minaccia portata in queste ore dall’ISIS (o ISIL, a seconda della definizione: Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, o Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), sia trattata principalmente come una questione interna irachena.

Sfida letale alla Stato o “soltanto” ulteriore destabilizzazione, la rivolta sunnita guidata dall’astro nascente Abu Bakr punta ora su Baghdad, dopo aver conquistato le principali città della nazione in maniera clamorosa. A Mosul (seconda città dell’Iraq) 800 miliziani hanno messo in fuga una guarnigione forte di 30mila uomini che ha abbandonato agli insorti armi, mezzi e divise.

Come si è arrivati a questa drammatica situazione di collasso delle gerarchie militari, non solo strategico ma anche morale? E quali sono gli scenari possibili all’orizzonte?

Il peccato originale dell’Iraq, com’è noto, risiede nella definizione dei suoi confini in epoca post-coloniale che non tenne conto della geografia delle confessioni. La monarchia hashemita prima (1921-1958) e la dittatura di Saddam Hussein poi (1979-2003) – oligarchia sunnita in un paese a maggioranza sciita – hanno accresciuto negli anni le criticità endemiche della nazione.

L’intervento anglo-americano del 2003 ha infine sponsorizzato un capovolgimento al potere promuovendo una mediocre leadership sciita che ha man mano emarginato le minoranze sunnite e curde, portando oggi l’Iraq sull’orlo del collasso interreligioso.

La conferma si è avuta quando il 13 giugno il grande ayatollah Ali al-Sistani ha chiamato i fedeli sciiti alle armi contro i sunniti dell’ISIS; il leader religioso è stato costretto insomma ad abdicare al suo ruolo di teologo e guida spirituale del paese, per sopperire al vuoto politico del governo di Maliki, in questo momento più dipendente da Teheran che mai.

Ecco perché, in concreto, gli Stati Uniti hanno chiesto a Maliki di aprire il suo governo al pluralismo delle forze presenti in Iraq; se così non sarà, la Casa Bianca non metterà comunque i suoi mezzi aerei al servizio della battaglia “settaria” degli sciiti iracheni – stante che ad oggi Obama non ha ancora deciso se intervenire davvero, e ha in ogni caso escluso l’uso di forze di terra. Si sta però profilando un’ipotesi addirittura paradossale ma ormai realistica, con il potere aereo americano che potrebbe agire in appoggio alla Guardia Rivoluzionaria iraniana, che in queste ore si è schierata al fianco delle forze di sicurezza irachene per respingere gli attacchi dell’ISIS.

Bisogna poi sottolineare come sul fronte qaedista le alleanze non vanno date per scontate. ISIS infatti è una forza eterodossa che è stata scomunicata a suo tempo dalla casa madre di Al-Zawahiri. Lo storico leader di Al-Qaeda voleva infatti che ISIS fosse operativa unicamente in territorio iracheno per lasciare il teatro siriano all’altra formazione fondamentalista: Al-Nusra.

Il rifiuto dell’ISIS ha generato così la rottura con la casa madre e ha segnato l’ascesa di Abu Bakr (detto anche lo “sceicco invisibile” perché non rilascia videomessaggi, a differenza dei top ranking che l’hanno preceduto: Bin Laden e Al-Zarqawi) come figura indipendente.

Quindi l’ISIS, data per spacciata cinque anni fa dai rapporti dell’intelligence militare statunitense, oggi conta su circa 15mila combattenti e punta soprattutto sul momentum che dopo la conquista di Falluja, Mosul, Tikrit sta portando i miliziani dritti sulla capitale. Eppure, l’esercito regolare iracheno è forte di circa 190mila effettivi e 500mila poliziotti, oltre naturalmente agli equipaggiamenti che gli Stati Uniti hanno messo a disposizione dal giorno del ritiro sino a oggi.

Obama, insomma, da una parte sa di dover contribuire a interrompere lo slancio militare (il momentun appunto) dei ribelli, ma dall’altra – confortato dai suoi consiglieri anche militari, sulla base delle esperienze recenti – non intende essere il paladino di un governo delegittimato e a sola matrice sciita. Come d’altronde è da escludere un coinvolgimento diretto di nuove truppe americane sul suolo iracheno dopo il ritiro definitivo del dicembre 2011.

Il problema, tuttavia, è quello del tempo: probabilmente troppo poco perché Maliki apra ai suoi oppositori, ora che i miliziani sono a 50km dalla capitale. Se è vero che una portaerei USA viene ora schierata nel Golfo, il ricorso alle incursioni aeree, oltre ai limiti politici prima esposti, presenta anche difficoltà di ordine pratico: stando a quanto dichiarato dal portavoce del Pentagono, John Kirby, mancano informazioni d’intelligence sufficienti (gli unici accreditati sul campo sono attualmente i servizi sauditi) per condurre raid efficaci e inoltre i miliziani dell’ISIS non hanno postazioni fisse, ma si spostano a bordo di camion in piccole colonne difficilmente individuabili.

Mutatis mutandis, se si osserva il terrorismo che abbraccia la Penisola Arabica e il Nord Africa, l’avanzata dell’ISIS richiama analogie strategiche con l’azione dei militanti dell’ACQMI nella recente crisi (anzi guerra) maliana. Insomma le sigle jihadiste non colpiscono più con azioni di sola guerriglia, ma sono in grado di minacciare in termini convenzionali l’integrità territoriale di alcuni Stati fragili. È successo in Mali, con un’offensiva che dal nord voleva puntare sulla capitale Bamako; sta succedendo in Libia dove l’unità nazionale è ormai solo sulla carta; lo vediamo nella vicenda siriana (pur con la grande capacità di resistenza del regime di Assad); sta succedendo ora appunto in Iraq, dove sulle moschee e sugli edifici pubblici delle principali città in mano ai ribelli sventola la bandiera nera dell’ISIS.

Paradosso ulteriore, mentre le forze fondamentaliste si rendono “convenzionali” conquistando città e proclamando l’indipendenza di intere regioni, gli Stati democratici ricorrono sempre più alle missioni coi droni, che sono visti come strumenti ancora “anomali” e sui quali il dibattito giuridico e umanitario è apertissimo. I paradigmi classici sembrano quindi capovolti in uno scenario inconsueto, dove alla guerra asimmetrica si aggiungono scomodi retaggi storici.

In ogni caso, gli ultimi sviluppi iracheni non possono certo sorprendere: Washington ha visto arrivare la crisi da almeno sei mesi, dalla caduta di Falluja in mano ai miliziani ai primi di gennaio 2014. Alla luce di questi fattori non è da escludere che gli Stati Uniti abbiano già dato per compromessa la situazione nel paese o addirittura lascino ora fare ai sunniti il lavoro sporco di togliere dalla scena Maliki. Solo dopo si cercheranno nuove vie di dialogo (d’altronde, colloqui informali sono aperti perfino coi talebani in Afghanistan) per gestire una situazione fragilissima che oltre all’Iraq investe direttamente la Siria, ma indirettamente anche la Turchia e il Libano. Inoltre, l’evoluzione sul terreno sta forzando i rapporti con l’Iran, autore di una proposta di collaborazione agli USA assai scomoda e insidiosa, ma anche intrigante per Washington: potrebbero davvero aprirsi scenari inediti.

Una svolta repentina potrebbe venire dalle immagini di esecuzioni di massa perpetrate da parte dei miliziani al vaglio in queste ore; immagini come forze carsiche, capaci di scuotere coscienze e offrire quel supporto morale necessario alla comunità internazionale per passare dalla fase di monitoraggio diplomatico a quella dell’azione. Ma quale azione, esattamente? L’opzione militare americana su vasta scala, in questo delicato rebus, appare francamente un’avventura remota e costituirebbe un capovolgimento epocale della filosofia obamiana in politica estera. In uno scenario che rischia d’incendiare tutto il Medio Oriente, l’eventuale perdita di Baghdad – nonostante le vite americane sacrificate nel paese dal 2003 (4mila morti, 30mila feriti) e le grandi risorse spese può addirittura risultare il male minore. Che piaccia o no, questo è il momento di scelte difficilissime in cui la Realpolitik di Obama, e la capacità di vari attori regionali di mostrarsi pragmatici, sarà messa a dura prova.