Fino al 2010, sia per Israele che per la West Bank si è parlato di un “miracolo economico”. I tassi di crescita delle due economie erano in effetti degni di nota, rispettivamente al 4% annuo per Israele e addirittura al 7% annuo per la West Bank; in entrambi i casi si registrava inoltre una buona mole di investimenti esteri. Molto peggiore era la situazione della Striscia di Gaza: isolata ermeticamente dall’esercito israeliano, sottoposta ad un embargo totale dal 2007 e gravemente danneggiata dai bombardamenti dell’Operazione Piombo Fuso , stentava a tornare a crescere e presentava tassi di disoccupazione superiori al 30%.
Nel 2011, però, il quadro è cambiato profondamente: la crescita globale si è arrestata e la liquidità internazionale si è molto ridotta; allo stesso tempo le “primavere arabe” hanno liberato energie e prospettato nuovi scenari regionali.
Israele resta sempre la start-up nation in grado di sfruttare il successo informatico e tecnologico acquisito a partire dagli ’90 grazie all’attività ed ai brevetti di aziende informatiche e di biotecnologie. Queste hanno trasformato la fascia costiera tra Haifa e Tel Aviv nella nuova Sylicon Valley, ma nel 2011 l’effetto-traino dell’informatica sull’economia è rallentato, e il Ministro delle finanze Steinitz ha dovuto rivedere i tassi di crescita al ribasso. Si è passati dal 4,8% del 2011 al 3,2% atteso per il 2012. Israele risente infatti del doppio effetto negativo della fortissima spinta inflazionistica interna, che ha portato i prezzi dei principali generi alimentari a salire del 4,7% e di altri generi di consumo del 4,2% nell’ultimo anno, e della recessione della zona euro. L’UE rappresenta il secondo grande mercato (dopo gli Stati Uniti) per le esportazioni israeliane, con il 26.6% del totale (nonché, ancora, il primo partner per le importazioni). A ciò si aggiunge l’allarme lanciato dal Direttore della Banca Leumi – la prima del Paese – David Brodet, circa il probabile crollo delle donazioni filantropiche in provenienza principalmente dalle comunità ebraiche degli Stati Uniti, stimato in 1,7 miliardi di dollari nel 2012 rispetto ai circa 4 miliardi degli anni precedenti. In sostanza, si annuncia un delicato aggiustamento finanziario per un Paese che utilizza i donors esteri per far quadrare la sua bilancia dei pagamenti, o almeno ridurne il disavanzo.
I dati macroeconomici, però, rivelano un quadro più composito. Se, infatti, le esportazioni verso la UE sono crollate del 12% dal novembre 2010 ad oggi (come comunicano le cifre dell’Israel’s Central Bureau of Statistics del gennaio 2011), quelle totali sarebbero addirittura cresciute nel 2011 con un aumento del 31,9%,verso paesi che non sono nè i tradizionali partner occidentali né i BRIC. Rispetto a questi ultimi (dopo le “tigri” asiatiche, la Cina e il Brasile), un ri-orientamento della politica economica israeliana è in corso da alcuni anni. Oltre a questa linea di tendenza, un numero crescente di aziende israeliane sta cercando di aprire spiragli commerciali con i Paesi arabi dell’area e con quelli musulmani del “secondo cerchio”: perfino un paese come l’Iran, verso cui vige un embargo assoluto, rappresenta comunque una fetta di mercato importante per le esportazioni che non compare nelle statistiche ufficiali o lo fa attraverso altri Paesi.
Nel 2011 fece scalpore la notizia che il gruppo Ofer avesse venduto una nave-cisterna (o petroliera) all’Iran violando l’embargo israeliano (e quello statunitense), ma si trattava solo della punta dell’iceberg. Ditte israeliane commerciano infatti regolarmente con l’Iran – ad esempio l’Allot Communications esporta sistemi informatici di sorveglianza e monitoraggio di Internet. Lo stesso vale per l‘Indonesia, paese con cui Israele non ha rapporti diplomatici ma dove le Ormat Industries forniscono regolarmente energia elettrica dal 2007; con l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, dove industrie israeliane vendono principalmente tecnologia applicata ai sistemi di sicurezza (tra cui lo stesso sistema di telesorveglianza con cui furono individuati due agenti del Mossad ce nel 2010 uccisero il cofondatore dell Izz ad-Din al-Qassam Brigades al-Mabhouh in un albergo di Dubai). Tecnologie israeliane sono utilizzate nel Golfo per proteggere le trivellazioni e le zone di estrazione; Israele fornisce addirittura armi e ricambi alle basi militari americane ospitate dall’Arabia Saudita.
Quando il commercio non può avvenire per via diretta, i prodotti israeliani passano attraverso intemediari: Paesi-cerniera come la Turchia per il Medio Oriente, Singapore per il Sud-Est asiatico, la Danimarca e altri Paesi UE per l’Iran. Nei passaggi della grande catena della distribuzione, scompaiono le etichette “made in Isarel”, per far apparire quelle del Paese nel quale sono transitate le merci.
E’ evidente che, particolarmente in questo momento di difficoltà della zona euro, Israele tenderà a rivolgersi in modo crescente ad altri mercati e diversificare sempre più le proprie esportazioni e i propri investimenti: è impensabile, infatti, che in un sistema imprenditoriale così vivace e intraprendente il “muro di ferro” commerciale con il mondo arabo e islamico non venga in qualche modo aggirato. Ad oggi si tratta in effetti di un’operazione tentata dal mondo del business israeliano in contrasto con la volontà del governo Netanyahu.
Altro discorso, invece, per la West Bank e la Striscia di Gaza, i cui problemi finanziari sono seri e in attesa di soluzioni urgenti. Per l’ANP di Salam Fayyad la questione principale rimane quella della forte dipendenza dall’estero in un momento in cui i tradizionali Paesi donatori, tanto occidentali quanto arabi, non sono più disposti a riversare sulla Palestina risorse come in passato. Questi fondi sono però necessari al pagamento degli stipendi della pubblica amministrazione(150.000 persone) e per lo sviluppo,pari a un miliardo di dollari annuo. Sono dunque evidenti le ragioni che hanno portato il Primo Ministro a chiedere, nel mese di gennaio, l’apertura di un tavolo di consultazione sulla crisi finanziaria in cui versa l’ANP, che ha recentemente assunto misure drastiche come alzare la tassa sul reddito del 5% e aumentare quelle sul possesso di terra e sulle attività e le transazioni commerciali. In tale contesto, l’ANP paga soprattutto il proprio isolamento nel contesto regionale: un isolamento che non è più dovuto esclusivamente all’occupazione israeliana e ai limiti da essa imposti, ma anche alla competizione con il regime di Hamas, che cerca di convogliare a suo favore consensi – ma anche donazioni e investimenti – dalla regione e da altre fonti.
Hamas non si trova affatto in una situazione economica florida: un dato tra tutti è che non paga gli stipendi ai suoi 40.000 dipendenti pubblici da mesi, per un debito totale di oltre venti milioni di dollari. Mancano anche gli investimenti necessari per la ricostruzione di case e infrastrutture, tuttora largamente incompleta. Paradossalmente, però, Hamas potrebbe godere di migliori prospettive di crescita rispetto all’ANP, sotto forma di “dividendi” delle scelte politiche fatte recentemente. In primo luogo, Hamas si è schierata dal lato giusto delle “primavere arabe” e sarà nell’immediato favorita dalla presenza di un forte partner commerciale confinante come l’Egitto, guidato da un governo particolarmente amichevole come quello appena uscito dalle urne. Infine, i donors arabi (con il Qatar in prima linea) preferiscono oggi versare fondi alla Striscia, governata da un movimento che si presenta come parte integrante della famiglia “transnazionale” dei Fratelli Musulmani. E’ forse per questa ragione che, sfoderando un grande ottimismo, il Ministro delle finanze di Hamas, Ismail Mahfuz, ha deciso addirittura di alzare le previsioni di spesa del governo per il 2012 da 630 a 769 milioni di dollari: un bilancio fatto di aspettative di entrata, più che di liquidità corrente.
Tutto ciò, per quanto non si traduca immediatamente in risorse economiche, è un capitale immateriale che il Governo della Striscia può spendere per stabilizzare la situazione interna in un contesto regionale rinnovato. Si può leggere in questi termini anche la recente decisione dell’ala militare di Maashal di raggiungere un accordo segreto con quella più “istituzionale” di Haniyeh per una transizione interna al gruppo dirigente, da gruppo militante a partito di governo.
A fronte di questi possibili sviluppi nella Striscia, l’ANP ha investito tutta la propria credibilità politica in un processo di pace a guida americana (con supporto europeo) che non è mai decollato; e la leadership della West Bank è rimasta piuttosto fredda rispetto alle rivoluzioni popolari della regione. Il vento, insomma, è decisamente cambiato, e le economie del Medio oriente ne stanno risentendo direttamente.