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La Giordania e le sue opzioni politico-energetiche

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Che cosa farà la Giordania? La monarchia fin qui più stabile del Medio oriente riflette, per  molti versi, i possibili mutamenti geopolitici dell’intera regione.

Sul piano interno, lo scorso novembre il primo ministro Awn Khasawneh  ha annunciato di voler revocare l’embargo verso i militanti di Hamas espulsi dal paese nel 1999 sotto le pressioni americane, definendo quella decisione un errore sia giuridico sia politico. Questa posizione sembrerebbe il frutto del lungo corteggiamento che Iran e Qatar hanno condotto negli ultimi tempi nei confronti del regno hashemita in cambio di importanti vantaggi economici.

Il regime di Teheran, ovviamente preoccupato della possibile perdita di un alleato strategico come la Siria, sta da tempo cercando di attirare Amman nella propria orbita con la promessa della costruzione di un gasdotto che porti il proprio gas in Giordania attraverso la Turchia o l’Iraq.

Contemporaneamente anche il Qatar, che vive un nuovo protagonismo nella regione sia come produttore di petrolio sia come sponsor della nuova Libia, guarda alla Giordania con grande interesse – spingendo appunto per il rientro in territorio giordano della leadership di Hamas che sta lasciando la Siria. Anche in questo caso la contropartita dello scambio politico è un possibile accordo energetico: la costruzione di un rigassificatore al largo del porto di Aqaba nel Mar Rosso, di cui si sta già studiando la fattibilità.

La Giordania – la cui domanda di gas e petrolio si prevede raddoppiata da qui al 2020 – sa ormai di non poter contare a lungo sulle importazioni provenienti dal Sinai a causa dei ripetuti sabotaggi degli ultimi anni: sebbene diretti a danneggiare Israele, questi colpiscono anche l’economia giordana. Ora, Amman sta facendo i conti anche con l’instabilità causata dalle primavere arabe, e in questa prospettiva potrebbe collocarsi la scelta di sostituire l’Egitto con l’Iran o il Qatar per le importazioni di energia.

In tale quadro regionale, il governo giordano si è offerto di ospitare colloqui diretti tra israeliani e palestinesi, soprattutto riguardo alla sempre delicata questione degli insediamenti nella West Bank e al più complessivo riavvio del processo di pace. E’ una valutazione piuttosto condivisa nella regione che stia crescendo l’isolamento diplomatico di Gerusalemme, anche in coincidenza con il relativo declino dell’influenza americana.

Eppure, proprio Israele potrebbe offrire alla Giordania un accordo energetico, superando così quella che l’analista Danile Levy chiama la “sindrome del porcospino” per aprirsi a rapporti più cooperativi con i paesi del Mediterraneo orientale e del Golfo. Sembra esservi infatti un interesse diffuso a limitare l’influenza iraniana, anche se per ora l’idea degli accordi energetici è solo un auspicio dibattuto sulle colonne del quotidiano israeliano Haaretz.

Uno dei percorsi con cui Israele potrebbe collegarsi alla Giordania via gasdotto passerebbe dalla Cisgiordania, e ciò avrebbe evidenti implicazioni politiche: l’arrivo di risorse in territorio palestinese potrebbe perfino cambiare la complicata equazione del processo di pace. Il gas a cui si cerca di accedere con le trivellazioni che Israele sta facendo nel Mediterraneo orientale – e che hanno generato forti tensioni con la Turchia nell’estate scorsa – potrebbe finire proprio in Giordania, beneficiando nel contempo anche i territori palestinesi. Un gasdotto tra Israele e Giordania (che passi o meno dalla West Bank) sarebbe meno caro e meno ambizioso sul piano ingegneristico del rivale progetto iraniano. In sostanza, si tratta di convincere il regno hashemita che legare il proprio futuro energetico – e in certo misura politico – ad Israele sia preferibile all’opzione iraniana.