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“Immigration reform”: verso la stagione elettorale

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Nel suo primo discorso sullo stato dell’unione Barack Obama ignorò completamente il nodo dell’immigrazione. Era il gennaio 2009 e la Casa Bianca era alle prese con l’urgenza della crisi economica e il lancio della riforma sanitaria. L’anno successivo, nella stessa occasione le parole dedicate dal presidente al tema furono appena 39, salite poi a 97 nel 2011, a 110 nel 2012 e a 250 nel 2013 – prima di ridiscendere a 121 nel più recente discorso sullo stato dell’unione, quello del 28 gennaio 2014. La retorica presidenziale sembra dunque riflettere la traiettoria di ascesa e declino del tema immigration reform nell’agenda politica e nel dibattito pubblico americano. Una curva determinata, in proporzioni variabili nel tempo, da tre fattori: l’esigenza obiettiva di riformare un complesso normativo considerato quasi unanimemente inadeguato e iniquo, l’incidenza delle comunità di immigrati sulle dinamiche elettorali, e infine le possibilità che in Congresso prenda forma una soluzione legislativa che soddisfi le varie parti in causa.

Sulla necessità di mettere mano a un corpus normativo che ha prodotto 11 milioni di irregolari, e che continua a fare acqua nonostante il numero record di espulsioni messe in atto dall’amministrazione Obama, concordano un po’ tutti: Democratici e Repubblicani, pur con accenti e per motivi molto diversi, ma anche associazionismo laico e organizzazioni religiose, sindacati e corporations. Recentemente, ad esempio, il co-fondatore di Microsoft Bill Gates ha auspicato che la riforma delle leggi sull’immigrazione, assieme a quelle sull’istruzione una diventi una vera priorità per il Congresso, e ha definito l’attuale situazione “profondamente ingiusta”.  

Questo consensoqquesto primo elemento si intreccia con il crescente peso specifico delle comunità di recente immigrazione nel sistema politico degli Stati Uniti. In particolare la comunità ispanica, a cui appartiene circa l’80% degli irregolari, è significativa sia per i numeri complessivi (il 15.4% della popolazione e il 9% dell’elettorato, con previsioni di forte crescita) sia per la sua incidenza nell’elettorato di swing states cruciali nelle elezioni presidenziali (41% in New Mexico, 15% in Nevada, 14% in Florida, 13% in Colorado). Le elezioni del 2012 hanno evidenziato impietosamente l’incapacità dei Repubblicani di attrarre il voto degli ispanici, e in genere delle minoranze non bianche, in un quadro demografico sempre più multiculturale; il Grand Old Party si è quindi posto il problema di una maggiore inclusività e rappresentatività, con risultati finora alquanto modesti. 

Rand Paul, senatore del Kentucky e astro nascente della destra libertaria capace di dialogare con il nebuloso Tea Party, ha da poco lanciato l’ennesimo allarme sui rischi di emarginazione del partito nel medio-lungo termine: persino nella roccaforte del Texas i Repubblicani rischiano di perdere il loro predominio nell’arco dei prossimi anni se non tornano ad adottare linguaggi e politiche inclusive verso la comunità latina, che rappresenta quasi il 40% della popolazione dello Stato. La strada indicata da Paul è quella che era stata seguita con un certo successo da George W. Bush prima come governatore e poi come presidente. Allo stesso tempo, un’altra figura emergente all’interno del GOP e con ambizioni presidenziali, il senatore di origini cubane Ted Cruz, proprio dal Texas dà voce a coloro che vedono un’apertura alle proposte democratiche sull’immigrazione come inaccettabile nel merito e controproducente politicamente: sanare la posizione di milioni di irregolari, e addirittura prevedere un percorso che porterebbe alcuni di questi alla cittadinanza, costerebbe molti voti a destra e vanificherebbe la possibilità di riconquistare la maggioranza al Senato nelle elezioni di medio termine del prossimo novembre. A completare, e complicare, il quadro sta un’incertezza sull’atteggiamento dell’elettorato:  è ancora tutto da dimostrare che le decisioni di voto degli ispanici siano orientate in modo preponderante dalle politiche sull’immigrazione, e che l’enfasi repubblicana sui family values tradizionali non possa invece di per sé trovare un terreno fertile tra le comunità immigrate. Rimane il fatto che la tensione tra obiettivi elettorali di breve periodo e trasformazioni di medio-lungo periodo del profilo politico-demografico del paese è tutt’altro che risolta sul versante repubblicano, ed è uno dei principali motivi dell’attuale stallo della discussione sull’immigrazione in Congresso.

Giungiamo così al terzo elemento. La “grande riforma” al momento non è sotto le luci della ribalta perché una soluzione condivisa da Democratici, che controllano il Senato, e Repubblicani, in maggioranza alla Camera dei rappresentanti, sembra assai più lontana rispetto a un anno fa.

Subito dopo la sua rielezione nel 2012, Barack Obama si spese a favore di una riforma onnicomprensiva di alto profilo almeno per due ragioni: da un lato, per tener fede alle promesse fatte in campagna elettorale alle comunità asiatiche e soprattutto ispaniche che tanto avevano contribuito alla sua rielezione (nonostante il suo primo quadriennio fosse stato al di sotto delle loro aspettative); dall’altro, per l’ambizione di conseguire un risultato da consegnare alla storia, coerente con le ambizioni trasformatrici della sua presidenza e all’altezza delle aspettative che questa aveva suscitato. In Senato la maggioranza democratica riuscì allora a dialogare con influenti leader repubblicani come John McCain, Marco Rubio e Lindsey Graham all’interno della cosiddetta “banda degli otto”. A metà 2013, l’approvazione di un testo di riforma complessiva con 68 voti favorevoli (tutti i Democratici più 14 Repubblicani) e 32 contrari sembrava finalmente aver portato a un punto di svolta dopo anni di stallo. Il disegno di legge in questione prevedeva una sorta di bilanciamento: si voleva infatti introdurre la possibilità di regolarizzare gli immigrati senza documenti, e eventualmente, dopo un percorso a ostacoli stimato in almeno una decina di anni, di concedere la cittadinanza a coloro che non si fossero macchiati di reati penali. Al tempo stesso, si, garantiva l’ulteriore rafforzamento delle misure volte a “sigillare” il confine con il Messico. Questi i due punti principali di un compromesso che sembrava avviare finalmente quella stagione di dialogo bipartisan che la Casa Bianca aveva insistentemente quanto vanamente invocato per anni.

E invece la radicalizzazione dello scontro, prima sulla riforma sanitaria e poi sul bilancio, è tornata a prevalere, fino allo shutdown dello scorso ottobre, causato dall’opposizione oltranzista di quei rappresentanti repubblicani (circa 80 su 234) che fanno capo al Tea Party e che sono determinanti per il controllo della camera bassa da parte del GOP. Soprattutto in Arizona e in altri stati del Sud-Ovest l’intreccio tra organizzazioni vigilantiste anti-immigrazione e la galassia Tea Party è da anni particolarmente stretto e trova il suo coagulante nella difesa dei “diritti degli stati” contro l’interventismo federale in materia di fisco come di immigrazione  (cfr. Tea party o “Fiesta Latina”? La comunità ispanica e le elezioni di medio termine, Aspenia 51, 2010).

Il relativo calo di attenzione al tema dell’immigrazione si inserisce quindi in questo frangente dello scontro tra due attori con gravi debolezze: un Obama la cui immagine pare appannata da esitazioni e passi falsi (come l’approccio incerto alla crisi siriana e le difficoltà nell’implementazione della riforma sanitaria), e un’opposizione repubblicana che per la sua radicalizzazione e le sue divisioni interne sembra in grado di porre ostacoli all’agenda del presidente ma non di articolare e promuovere una visione propria dell’America. Tuttavia non è detto che questa congiuntura politica sia il de profundis per la riforma dell’immigrazione.

La Casa Bianca ha fin qui evitato di procedere con mosse unilaterali, come ha fatto invece con grande pompa con l’aumento dello stipendio minimo dei dipendenti federali annunciato nell’ultimo discorso sullo stato dell’unione. Questa cautela è stata interpretata da molti come un segno che non è ancora svanita la fiducia in un accordo alla Camera, che probabilmente sarebbe venuta meno se la Casa Bianca avesse usato toni polemici e di parte nei suoi interventi recenti. Le elezioni di medio termine sono vicine e il loro esito potrebbe condizionare fortemente l’ultimo biennio di Obama. Il presidente sa che un insuccesso in questa materia ridimensionerebbe in modo significativo la sua presidenza di fronte agli elettori democratici e alla Storia. I Repubblicani sanno che l’opposizione intransigente può garantire benefici immediati, ma anche trasformare il partito che fu di Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt in un club di angry white men che rischia di essere anacronistico e perdente nell’America contemporanea. Che ci sia dunque ancora qualche speranza?