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Gli italiani di Crimea: una tragedia dimenticata

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Diciamo la verità, non è che l’Italia abbia mai brillato in risolutezza e generosità nella difesa delle comunità italiane all’estero bisognose d’aiuto. Due esempi su tutti, l’esodo dei 300.000 istriani, giuliani e dalmati nell’immediato dopoguerra e successivamente, nel 1970, la cacciata dei nostri 20.000 connazionali dalla Libia.

Oggi, nel cuore della crisi internazionale del momento, c’è un piccolo gruppo di circa 300 persone che guarda con ansia e con grande speranza alla madrepatria d’origine: gli italiani di Crimea.

Una comunità concentrata nella città di Kerch, ridotta al lumicino dalle purghe staliniane e dalla successiva deportazione di massa nei Gulag del Kazakhstan, ma con alle spalle una grande storia di intraprendenza che fino alla Rivoluzione d’Ottobre ne aveva fatto una delle minoranze etniche più ammirate e più ricche della regione.

Le prime tracce di una consistente presenza italiana in Crimea risalgono al 1266, quando la repubblica marinara di Genova avviò una massiccia colonizzazione che nell’arco di due secoli la portò ad occupare saldamente la costa meridionale della penisola dove fondò numerose città. Nella seconda metà del Quattrocento il territorio fu occupato dai Turchi e gli italiani tornarono precipitosamente a casa.

La seconda ondata migratoria, di cui invece è rimasta traccia fino ad oggi, si sviluppò tra il 1820 e il 1870. L’affluenza massiccia degli italiani fu inizialmente sollecitata da emissari zaristi inviati nel Regno delle due Sicilie a reclutare agricoltori, giardinieri, pescatori, muratori e artigiani. L’idea era quella di ripopolare la Crimea, sfruttando al massimo le potenzialità economiche di una regione che già a quel tempo era la meta turistica privilegiata della nobiltà moscovita. Attratti dalla fertilità delle terre, dalla pescosità dei mari e quindi dalla prospettiva di sottrarsi alla miseria, migliaia di italiani provenienti soprattutto dalle coste pugliesi ma anche dalla Liguria, dal Veneto e dalla Campania portarono con sé il proprio dinamismo e anche idee brillantissime: vitigni pregiati, ulivi di diverse varietà, prodotti ortofrutticoli talvolta sconosciuti. Anche i pescatori si distinsero per la loro bravura, dirozzando la cucina locale – molto povera – e diffondendo tra l’altro la pesca e la consumazione dei frutti di mare. Verso la fine del secolo aprirà, sempre per iniziativa di un italiano, la prima fabbrica per la conservazione del pesce sotto sale, e anche il commercio era in gran parte gestito dai nostri connazionali.

Ma gli italiani, che nel frattempo si contavano a migliaia e che si erano concentrati soprattutto nelle cittadine costiere e in particolare a Kerch, si distinsero anche nelle attività intellettuali. In Crimea si erano infatti trasferiti pure musicisti, avvocati, medici, scrittori e architetti. La prima e per lungo tempo unica chiesa cattolica della regione, costruita a Kerch nel 1840, fu disegnata dall’architetto piemontese Alessandro Digbi, al quale si devono anche i principali edifici storici del centro. Via Italia e via Genova erano due delle strade più importanti di Feodosiya, altra cittadina con una nutrita comunità di italiani.

In Crimea approdò più volte col brigantino genovese Clorinda il giovanissimo mozzo Giuseppe Garibaldi. Anzi, fu proprio nel corso di uno dei suoi viaggi in Crimea che al porto di Taganrog, nel 1833, conobbe Giambattista Cuneo, il quale gli trasmise gli ideali della Giovine Italia.

I nostri connazionali, tutti in  possesso della doppia cittadinanza, si erano perfettamente integrati nel tessuto locale. A fine Ottocento venne anche aperto un ufficio consolare a Kerch, in considerazione della consistenza della nostra comunità e dell’importanza commerciale del porto, posto all’imboccatura dello stretto che divide il mar Nero dal mar d’Azov. Nel censimento cittadino del 1897 gli italiani erano l’1,8% della popolazione, nel 1921 il 2%. Secondo alcune statistiche, quando i bolscevichi presero il controllo della Crimea gli italiani di Kerch erano circa 3.000.

I nostri connazionali si esprimevano in dialetto – soprattutto pugliese – o al massimo in un italiano approssimativo. Per sopperire a questa carenza, agli inizi del Novecento fu aperta a Kerch una scuola elementare italiana, poi chiusa durante l’epoca staliniana. Sempre agli inizi del secolo scorso il principale quotidiano cittadino pubblicava spesso articoli in altre lingue, fra cui l’italiano.

L’avvento del comunismo segnò la fine del benessere economico e l’inizio delle persecuzioni. Subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, spaventate dalla prospettiva di un esproprio generalizzato alcune decine di famiglie decisero di tornare prudentemente in Italia, trasferendosi quasi tutte a Roma.

Chi invece decise di rimanere a Kerch fu ben presto costretto a rinunciare alla cittadinanza italiana, pena l’espulsione, a consegnare tutti i suoi beni (terreni coltivati, capi di bestiame, piccole attività commerciali e artigianali, pescherecci) e ad entrare nel kolchoz “Sacco e Vanzetti”, creato apposta per gli italiani negli Anni Venti. Nel 1932 le autorità sovietiche decisero anche di chiudere la chiesa, trasformata in una palestra.

Nonostante fosse obbligatorio, al kolchoz aderì meno della metà degli italiani censiti. Gli altri, o riuscirono a scappare in Italia (stabilendosi in gran parte a Trieste, che tutt’oggi ospita diverse famiglie di loro figli e nipoti) o furono vittime delle purghe staliniane: torture, processi sommari, fucilazioni e deportazioni nei Gulag, come risulta da numerose testimonianze accuratamente raccolte nel dopoguerra dai loro discendenti.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, la Crimea passò ripetutamente di mano. Ogni volta che l’Armata Rossa riprendeva il controllo della regione, scattava la vendetta contro le minoranze, accusate di collaborazionismo col nemico. I primi a essere deportati nei Gulag del Kazakhstan, nell’agosto del ‘41, furono i tedeschi.

Il 29 gennaio del 1942 toccò alla comunità italiana. In due ore furono costretti a fare le valigie (otto chili di bagaglio a testa) e a recarsi al porto di Kerch. Le fonti non concordano sul numero dei deportati, ma si stima che non furono meno di 2.000. La pulizia etnica fu completata negli anni successivi, deportando le poche famiglie italiane sfuggite al primo rastrellamento.

L’inverno ’41-’42 fu particolarmente rigido. Agli italiani, ammassati sulla banchina del porto di Kerch, fu spiegato che li spostavano altrove per “garantire la loro sicurezza”. In realtà furono imbarcati su due navi dirette verso il Caucaso. Per una delle due imbarcazioni il viaggio finì subito, perché appena partita fu centrata da una bomba e affondò: tutti gli italiani a bordo morirono annegati. L’altra nave raggiunse invece il porto sovietico di Novorossijsk e da lì incominciò un viaggio di oltre 8.000 chilometri in treno, nei vagoni piombati, che durò più di due mesi. Dopo l’attraversamento del Caucaso, del mar Caspio e delle steppe dell’Asia Centrale, quanti erano rimasti in vita furono dispersi nei Gulag del nord del Kazakhstan. Il freddo e la fame e le malattie avevano infatti decimato la nostra comunità già durante il viaggio, come documentato dalle testimonianze dirette raccolte da Giulia Giacchetti Boico, presidente dell’associazione Cerkio che raggruppa i discendenti dei deportati italiani di Kerch.

Nel periodo della deportazione l’identità italiana fu in tutti i modi soffocata. I nostri connazionali vennero intenzionalmente dispersi in villaggi che distavano anche centinaia di chilometri l’uno dall’altro, proprio per evitare che potessero conservare un senso di appartenenza comunitaria. Allo stesso modo, nessuno parlava più la nostra lingua in pubblico, per paura di rappresaglie, e molti furono costretti a russificare le proprie generalità.

La morte nei campi di lavoro di centinaia di uomini e la necessità delle vedove di ricostituire in fretta una nuova famiglia per poter mantenere i figli, fece sì che molti cognomi italiani si persero per strada (perché il secondo marito era di nazionalità russa) e per gli stessi motivi si perse progressivamente anche la familiarità con la lingua.

Inoltre, al momento della partenza da Kerch erano stati sequestrati quasi tutti i documenti di identità, per cui in seguito per la maggior parte dei discendenti dei deportati sarà molto difficile se non addirittura impossibile comprovare la propria origine italiana.

Ma nonostante le persecuzioni e la vita durissima, i nostri connazionali conservarono gelosamente i loro ricordi e a partire dal 1956, dopo la denuncia dei crimini di Stalin, dalle zone più sperdute del Kazakhstan molti di loro fecero silenziosamente ritorno in Crimea, dove naturalmente dovettero ripartire completamente da zero: senza casa, senza lavoro, senza ritrovare nulla di quanto avevano lasciato nel 1942. Dopo la caduta del comunismo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli italiani di Crimea (ora cittadini ucraini di origine italiana) avviarono i primi contatti con l’Italia.

Oggi l’associazione Cerkio si batte su diversi fronti.

La chiesa di Kerch è stata riscattata dal comune, rimessa a posto a spese della nostra comunità e infine riaperta al culto. I giovani, cresciuti nella venerazione dell’Italia, studiano italiano nella minuscola sede dell’associazione e molti di loro sognano un futuro qui da noi. I vecchi, prima di morire, vorrebbero coronare il sogno di visitare i luoghi dai quali partirono nell’Ottocento i loro antenati.

Alle autorità ucraine gli italiani di Kerch chiedono il riconoscimento dello status di minoranza deportata (già concesso a tedeschi, greci, armeni, tatari e bulgari), che comporterebbe un indennizzo per le case perdute a seguito della deportazione, piccoli benefici di carattere sanitario e pensionistico, il diritto di chi è ancora rimasto in Kazakhstan e in Uzbekistan di tornare in Crimea e soprattutto la restituzione della dignità, perché la deportazione del ’42 fu decisa su base etnica, per la sola “colpa” di essere italiani.

All’Italia ufficiale chiedono di occuparsi finalmente di loro, dopo anni di oblio. A differenza di un secolo fa si tratta di una comunità molto povera, sfiduciata e delusa. Tra i loro obiettivi: la ricostruzione dell’albero genealogico, premessa per riottenere la cittadinanza italiana (non perduta, ma rubata); una corsia preferenziale per poter venire a studiare o a lavorare in Italia; il consolidamento dei rapporti coi Comuni pugliesi di origine, appena riavviati; l’apertura di una Casa della Cultura Italiana a Kerch, dove riunirsi per coltivare la nostra lingua, la nostra cultura e le nostre tradizioni.

Ora la preoccupazione della nostra minoranza in Crimea è grande. Non solo per il rischio di una guerra civile o di uno scontro armato vero e proprio fra due eserciti, ma perché se la regione dovesse staccarsi dall’Ucraina, per loro sarebbe tutto più complicato perché nella sterminata Russia i 300 italiani di Kerch non avrebbero più alcuna attenzione, né da Mosca né da Roma.

Domenica 2 marzo, prima di volare a Kiev, il ministro degli Esteri greco Venizelos si è recato a Mariupol, un grosso centro portuale del mar d’Azov, non lontano dalla Crimea. Qui vive da secoli una numerosa comunità di origine greca. “Quando c’è bisogno di proteggere i nostri connazionali nel mondo, siamo tutti uniti. Di concerto con le autorità ucraine, il nostro aiuto sarà diretto, pratico ed efficace, diteci di cosa avete bisogno”, ha dichiarato il ministro. Un segnale di attenzione e di solidarietà inequivocabile, che gli oriundi italiani di Kerch, ora nell’occhio del ciclone, ancora non hanno sentito.