Per rendere giustizia alla situazione in Venezuela, può risultare interessante ricorrere a un espediente teorico della filosofa Chantal Mouffe. Se consideriamo la liberal-democrazia come un matrimonio non necessario, bensì contingente tra due filoni, quello proveniente dalla tradizione liberale da una parte e quello egualitario-democratico dall’altra, è possibile pensare alle esperienze populiste latinoamericane come una rinegoziazione radicale del peso specifico delle due componenti. Il caso venezuelano è emblematico, nel senso che l’elemento egualitario ha messo in seria crisi quello liberale.
Badare unicamente al declino di quest’ultimo e sorvolare sull’ampliamento del primo, come gran parte della stampa occidentale ha sistematicamente fatto, significa omettere buona parte della storia del Venezuela recente e non comprendere i fatti odierni. Vi è un’ulteriore considerazione storico-filosofica che aiuta la comprensione: l’elemento liberale, nella sua specifica articolazione venezuelana – e latinoamericana, più in generale – ha largamente eluso le vuote promesse di inclusione economica e sociale tradendo, nell’epoca più recente, persino le aspettative di benessere generate dallo sfruttamento dell’ingente quantità di idrocarburi in dote al Paese. In altre parole, il liberalismo in Venezuela ha recepito l’elemento democratico in maniera schiva e selettiva, il che spiega nitidamente gli indici di disuguaglianza del paese nel secolo scorso. Ricordare questo dato consente di delineare i contorni dell’appoggio continuo che la maggior parte della popolazione ha concesso a Chávez – ed ora al suo erede Maduro – da ormai 15 anni: i venezuelani dei barrios, ampie masse urbane che vivono sui colli di Caracas, hanno visto un progressivo miglioramento delle proprie condizioni di vita, dall’allacciamento alla rete fognaria all’accesso all’attenzione medica gratuita. Questo passaggio ha coinciso con un notevole protagonismo politico dei settori popolari. Il chavismo, in questo senso, ha consegnato al Venezuela – e a buona parte dell’America Latina – una riserva simbolica che ha particolare senso nel contesto in cui ha visto la luce e che probabilmente perdurerà al di là di come finiscano le vicende di questi giorni. È perciò un errore guardare con ingenuo sbigottimento all’indebolirsi di diversi principi liberali: sono i percorsi storici a costruire il senso comune.
Per comprendere quanto sta accadendo si devono poi diversificare le fonti di informazione: le proteste dell’ultimo mese e mezzo hanno infatti dato l’idea, empiricamente priva di fondamento, che l’intero Venezuela si sia rivoltato contro i suoi governanti. La verità è che le proteste sono state confinate principalmente ai quartieri benestanti, con il principale coinvolgimento di studenti della classe medio-alta. Del resto, non viene ricordato molto spesso che a dicembre Maduro aveva ottenuto un risultato confortante alle ultime elezioni locali. Questo non significa che le proteste non stiano mettendo a dura prova la resistenza del governo e provocando un protratto stato di emergenza. La questione è piuttosto se il legittimo diritto alla protesta non sia sfociato in un tentativo di destabilizzazione volto ad un cambio di regime: in tal senso, l’evocazione del Cile nel 1973 non è impropria.
Un racconto obiettivo non può tuttavia prescindere da uno sguardo alle ragioni dei manifestanti. Le proteste evidenziano problemi reali che la Revolución Bolivariana non ha saputo gestire e altri che invece ha creato ex novo. La gestione economica del governo Maduro ha perpetuato tutte le tare lasciate in eredità da Chávez. Il problema non è necessariamente il discostamento dall’ortodossia economica – l’Ecuador di Correa insegna che è possibile mantenere l’inflazione entro ranghi contenuti pur contraddicendo molti dei principi neoliberisti – ma di altro tipo: l’improvvisazione perpetua, la cronica dipendenza dalle importazioni accompagnata dall’insufficienza dell’apparato produttivo nazionale, un tasso di cambio alterato dalla restrizione dell’accesso ai dollari e da continue svalutazioni (che hanno prodotto un’inflazione da capogiro, mercato nero e speculazioni). Non è poi di aiuto in questo senso la burocrazia statale piagata dalla corruzione, dall’impreparazione e dal caos istituzionale. Al tempo stesso, l’insicurezza ha raggiunto livelli tali da alterare sensibilmente i comportamenti dei venezuelani, ormai dettati dalla paura di essere vittima di atti criminosi.
Sul piano politico, la transizione Chávez-Maduro è stata tutt’altro che indolore, evidenziando il dilettantismo del secondo e la sua sostanziale incapacità di colmare il vuoto di leadership lasciato dal predecessore. Se alla mancanza di carisma di Maduro si aggiungono le sue uscite infelici, come quella in cui fra lo stupore generale disse di avere rivisto Chávez incarnato in un uccellino, si può comprendere come parte dell’opposizione abbia considerato la situazione matura per riaccarezzare l’idea di una rottura non democratica. Senza dimenticare che, nonostante l’indiscutibile superiorità ribadita ad ogni appuntamento elettorale, il chavismo ha dimostrato a più riprese una mancanza di apertura nei confronti delle idee altrui. Questa tendenza a tratti ha rasentato l’autoritarismo e si è recentemente arricchita dalla notizia dell’esistenza di bande giovanili armate chaviste che operano al di fuori del controllo delle forze dell’ordine.
Come si ripercuote tutto ciò sul piano dei rapporti di forza internazionali? È innegabile che il Venezuela non occupi più la posizione che Hugo Chávez le aveva ritagliato negli anni scorsi. I prolungati disordini di piazza, le scarsità di generi di prima necessità – pur in certi casi provocate artificialmente dal settore privato – e l’infelice gestione economica non possono costituire un modello seducente, capace di esercitare un’attrazione egemonica. Sebbene molto spesso vengano amplificati maliziosamente dai mezzi di informazione, i limiti del modello venezuelano si sono espressi in un’ormai conclamata incapacità di sfidare la predominanza brasiliana nel continente, ma anche in una perdita del ruolo di guida dell’opzione anti-neoliberista. Questo, d’altra parte, non significa che tale opzione abbia perso interamente terreno nel continente: si registra piuttosto una stabilizzazione della sua influenza. È venuto tuttavia a mancare l’elemento cardine: l’Ecuador di Correa infatti, nonostante sia tutto sommato un’esperienza politica ed economica “eterodossa” di successo, manca delle risorse e della popolazione necessarie per poter giocare il ruolo che fu del Venezuela.
Stiamo così assistendo a una certa impasse delle iniziative del regionalismo post neo-liberista (leggasi ALBA e UNASUR), di cui il Venezuela era stato entusiasta promotore. Le cause di questo rallentamento vanno però ricercate anche nei limiti del modello inter-governativo, piuttosto che sovranazionale, attraverso cui gli organismi citati hanno sinora operato. Parallelamente invece si è consolidata negli ultimi anni l’Alleanza del Pacifico, uno schema di libero scambio tra i paesi del continente più vicini a Washington (Messico, Colombia, Perù, Cile) che promette di estendersi anche oltre i confini latinoamericani. Tuttavia, ciò non dovrebbe avviarci alla frettolosa conclusione che il cosiddetto Consenso di Buenos Aires, ossia la virata politico-ideologica che negli ultimi 15 anni ha seriamente ridimensionato l’influenza statunitense nella regione e di cui il Venezuela è stato il maggior artefice, abbia interamente ceduto il passo a un ritorno al passato.