E’ un dato significativo che la firma del trattato di adesione della Croazia alla UE sia avvenuta durante il semestre di presidenza europea della Polonia, conclusosi lo scorso 31 dicembre.
Il 22 gennaio la maggioranza degli elettori croati ha confermato, attraverso un referendum, l’ingresso della Croazia all’Unione Europea, e dal primo luglio del 2013 il piccolo paese dei Balcani diventerà ufficialmente il ventottesimo stato dell’UE.
L’obiettivo principale della Presidenza polacca è stato quello di evidenziare la capacità dell’Europa di porsi come modello di buon governo verso gli stati candidati, e più ampiamente di esportare i propri principi a garanzia della sua stessa sicurezza interna.
Dunque, Varsavia ha deciso di rilanciare il dialogo con i paesi dell’est europeo che ancora non fanno parte dell’Unione, facendo leva sul ruolo strategico che la Polonia riveste in quanto ponte naturale tra l’Europa e i componenti dell’ex blocco sovietico. Non a caso proprio all’iniziativa polacca si deve la sottoscrizione dell’accordo di Partenariato Orientale, siglato a Praga nel 2009, con Moldavia, Ucraina, Bielorussia, Armenia, Georgia e Azerbaijan.
La Polonia rappresenta in effetti un ottimo esempio della buona riuscita dell’allargamento e dei vantaggi che ne derivano. I benefici ottenuti in seguito alla sua adesione sono stati in primo luogo una maggiore stabilità politica ed economica: lo sviluppo dell’economia polacca, con un tasso di crescita costante intorno al 4%, è un dato particolarmente rilevante. Dopo la caduta del muro di Berlino la Polonia è stata protagonista di un processo di transizione di successo.
La presidenza di turno è stata pertanto vista dal governo polacco come l’occasione giusta per intraprendere una politica di stabilizzazione e quasi di supervisione dell’area orientale del continente, in grado anche di accreditarla in Europa come un fattore di equilibrio geopolitico. Puntando sul rilancio delle politiche di vicinato, Varsavia ha cercato di dare nuova linfa proprio al Partenariato Orientale in quanto strumento che è stato trascurato dai paesi dell’Europa occidentale, soprattutto alla luce della grave crisi dell’eurozona.
Per questo motivo, il vertice europeo del Partenariato Orientale tenutosi a Varsavia lo scorso settembre voleva essere un momento caratterizzante della presidenza polacca, ma i suoi risultati non sono stati quelli sperati. La difficile situazione politica e i mancati progressi democratici dei paesi aderenti al Partenariato si sono rivelati ostacoli decisivi: non è certo facile per la Polonia convincere gli altri membri dell’Unione ad accelerare l’integrazione di questi paesi con l’UE.
Il vertice si è concluso con l’uscita della Bielorussia dal Partenariato, e la conseguente chiusura di tutti i canali di dialogo e cooperazione tra questa e l’Unione. Il suo cammino d’integrazione europea ha così subito una battuta di arresto a tempo indefinito. La grave situazione dei diritti umani e politici, la mancanza di libertà di espressione e le politiche repressive del presidente Lukaschenko nei confronti delle opposizioni hanno spinto i paesi dell’Unione a firmare un documento di condanna nei confronti del leader bielorusso; ma non sono stati seguiti in questo dagli altri partner post-sovietici, a ulteriore dimostrazione degli ostacoli che incontra la strategia polacca. In sostanza, è assai difficile ottenere dei progressi democratici da paesi che non vedono l’ingresso nell’Unione Europea come un’opzione concretizzabile nel breve periodo.
Da questa prospettiva, la situazione politica dell’Azerbaijan non è molto differente da quella bielorussa. Il presidente Ilham Aliev si è assicurato la presidenza a vita e non sembra farsi scrupoli nell’adottare metodi repressivi nei confronti dei dissidenti, mentre le opposizioni sono assenti da tutte le istituzioni. Anche l’Armenia, da parte sua, ha adottato un sistema di controllo dei media che limita fortemente la libertà di espressione, e nel paese si registrano continue violazioni dei diritti di chi opera nel campo dell’informazione. Le condizioni democratiche sembrano essere migliori nella piccola repubblica Moldava, che è però ancora impantanata nella controversia della Transnistria (che coinvolge Ucraina e Russia) e deve fare i conti con un sistema di corruzione generalizzato.
Nonostante questi seri problemi, il vertice di settembre del Partenariato Orientale non può considerarsi un totale fallimento. Nelle dichiarazioni finali è stato riaffermato il principio del “more for more”, in base al quale i paesi che s’impegneranno maggiormente nell’attuazione delle riforme richieste riceveranno maggiori aiuti e investimenti da parte europea e verranno coinvolti nello spazio di libera circolazione. A Varsavia sono stati dunque riconfermati i capitoli dell’integrazione economica ed è stata fatta maggiore chiarezza sui criteri politici a essa legati. Di fronte alla complessità della situazione politica, si tenterà di percorrere la strada dell’avvicinamento all’UE sul piano dell’armonizzazione dei mercati, per evitare che i Paesi dell’ex Unione Sovietica siano assorbiti dall’orbita geopolitica russa – o subiscano una crescente influenza cinese o iraniana.
L’altro obiettivo concreto del semestre di presidenza polacca era l’accordo di associazione tra L’Unione Europea e l’Ucraina: obiettivo saltato a causa dell’arresto di Yulia Timoshenko, l’ex primo ministro e leader dell’opposizione ucraina, condannata a sette anni di carcere per abuso d’ufficio.
Infine, gli sforzi polacchi sono andati a vuoto anche nel tentativo di allargare l’area Schengen alla Romania e alla Bulgaria. La presidenza aveva proposto un ingresso graduale dei due paesi, dapprima con l’apertura degli aeroporti e poi delle frontiere terrestri. Il veto espresso dai governi di Helsinki e di Amsterdam, preoccupati che Bucarest e Sofia non siano ancora in grado di garantire un adeguato controllo delle proprie frontiere, è stato decisivo: il voto sulla questione è stato rinviato.
L’azione condotta dalla Polonia, in conclusione, sembra almeno aver raggiunto lo scopo di riaffermare l’attiva presenza della UE nell’area post-sovietica, ma è apparsa evidente (come in passato) la difficoltà di influenzare le scelte dei partner orientali e la loro riluttanza ad accettare il modello istituzionale comunitario. Il successo del Partenariato non può dipendere solo dagli sforzi diplomatici della Polonia, e naturalmente ha bisogno di un impegno della durata maggiore di un singolo semestre.
Senza dubbio, la stabilità dell’area rimane cruciale per la politica estera polacca, e il presidente Tusk (rieletto lo scorso ottobre) proseguirà la propria azione in questa direzione. In particolare, l’accordo di associazione con l’Ucraina resta una priorità assoluta per il governo di Varsavia. La “ostpolitik” perseguita dalla Polonia passa anche attraverso la normalizzazione dei rapporti con l’ingombrante vicino russo: la Polonia ha aumentato le forniture di gas dalla Russia e annunciato la futura firma di un trattato con Mosca per la creazione di una zona di libero transito con l’enclave di Kaliningrad. E questa politica dei piccoli passi nei rapporti con la Russia non ha finora creato frizioni neppure nell’ambito della Nato – l’altro versante prioritario della politica estera polacca. Prosegue, infatti, la stretta collaborazione di Varsavia con gli Stati Uniti, che hanno aumentato la loro presenza militare nel paese centro-europeo.
Intanto, nel clima di grandissima incertezza sul destino dell’euro, l’adesione della Polonia alla moneta unica è stata derubricata dall’agenda politica del governo. Questa resta certamente un obiettivo strategico per Varsavia, ma è stato rimandato a data da destinarsi.