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La sfida islamista in Nigeria e il quadro interno

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Quando nel 2009 le forze di sicurezza nigeriane uccisero il fondatore della setta islamista Boko Haram, Mohammed Yusuf, s’illusero intimamente e pubblicamente di aver sconfitto il problema. Tuttavia la morte del fondatore – di cui rimane celebre l’intervista alla BBC nella quale appellandosi al Corano negava la sfericità della terra e attribuiva il fenomeno della pioggia alla volontà divina – anziché fiaccare il movimento lo ha definitivamente esaltato.

Così, negli ultimi due anni, la setta – Boko Haram si può tradurre approssimativamente come “l’educazione occidentale è vietata” – ha compiuto un salto di qualità strategico. Lo dimostrano gli attacchi altamente simbolici alla sede ONU del 26 agosto scorso (21 morti e più di 70 feriti), e quello alle chiese cristiane nel giorno di Natale (che ha ucciso oltre 40 fedeli).

Andiamo con ordine. La storia recente della Nigeria – dall’indipendenza nel 1960, passando per la guerra del Biafra sino all’odierna sfida islamista di Boko Haram – è sempre stata una storia di aspri conflitti etnici su cardine religioso.

Con i suoi quasi 160 milioni di abitanti questa repubblica federale esprime demograficamente un sesto dell’intero continente ed è lo stato più popoloso dell’Africa, articolato su tre principali gruppi etnici: gli Yoruba, gli Hausa-Fulani, gli Ibo.

Se i primi e gli ultimi sono cristiani (con qualche percentuale ancora fedele all’animismo tradizionale), gli Hausa sono musulmani e occupano in maniera omogenea tutto il territorio settentrionale della nazione. Una vasta area, 12 stati in tutto, dove la sharia nell’ultimo decennio ha progressivamente acquistato potere, sovrapponendosi spesso alle leggi laiche, e dove Boko Haram (l’espressione è appunto in lingua Hausa) rappresenta oggi la principale minaccia per il governo centrale di Abuja. Il nome ufficiale della setta è in realtà Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad , ovvero Popolo devoto alla diffusione degli insegnamenti del Profeta e alla guerra santa. Offre così al mondo una fotografia nigeriana che fa pensare a un altro stato africano prima della recente separazione, il Sudan, dove il compatto Nord musulmano ha tentato, con successo, di destabilizzare il Sud cristiano. E l’analogia, a pensarci bene, non si limita a una carta geografica speculare, cioè divisa orizzontalmente in due. Proprio in Sudan Osama Bin Laden aveva installato la sua prima base terroristica dopo l’esperienza fondativa afghana ; un focolaio che permise nel tempo ad al-Qaida di rafforzarsi, contando sull’ambigua politica di Khartoum, sempre oscillante tra accondiscendenza e repressione. Un incubatore, in altre parole, non diverso dall’attuale scenario nigeriano, dove la Jihad dichiarata dalla setta è una minaccia in grado di evolvere dallo stadio locale a quello regionale o perfino globale. Un sintomo della preoccupazione con cui si guarda al caso nigeriano è la decisione dell’FBI di dispiegare alcuni suoi agenti sul territorio del paese africano per dare un contributo d’intelligence alle indagini – su invito del governo del Presidente Goodluck Jonathan, un Yoruba cristiano. Sono del resto ben noti i clamorosi limiti, attuali e pregressi, delle forze di sicurezza nigeriane.

I primi attacchi suicidi nella storia della Nigeria hanno fatto sorgere, per modalità e obiettivi prescelti, immediati interrogativi sui legami di Boko Haram con la rete terroristica internazionale. Diversi indizi supportano una simile ipotesi a partire dalle analogie operative con i gruppi islamisti del Maghreb, dello Sahel e del Corno d’Africa. Il più recente segnale riguarda un flusso d’armi scaturito dalla recente guerra libica che pare abbia facilitato un notevole approvvigionamento per la setta, incoraggiando la pianificazione di assalti su larga scala. L’ultima offensiva nella città di Kano, terzo agglomerato della Nigeria, ha causato 185 morti, molti dei quali tra le forze di polizia e di sicurezza attaccate con abbondanza di mezzi e consapevolezza tattica.

Tuttavia sarebbe un errore enfatizzare i legami con l’esterno e sottovalutare quanto possente sia la spinta ideologica autoctona. Boko Haram non è il primo movimento estremista che nasce in Nigeria: negli anni Ottanta i disordini orchestrati da Maitatsine, un eterodosso leader religioso, provocarono non meno di diecimila morti in quel medesimo Nord dove oggi si sta introducendo la sharia come legge fondamentale del diritto.

A scanso di equivoci, grandi cartelli stradali d’avvertimento all’ingresso di molte città settentrionali ammoniscono oggi i nuovi arrivati circa l’entrata in vigore del nuovo corso giuridico. In quest’area confessionalmente omogenea ed economicamente depressa, i leader religiosi musulmani hanno boicottato negli anni scorsi un vasto programma di vaccinazione contro la poliomielite promosso dall’OMS; gli imam accusavano infatti il vaccino di essere un pretesto occidentale per sterilizzare le donne musulmane. Per gli ideologi del Nord, infine, lo slancio verso le rive del Golfo di Guinea e Port Harcourt, la principale città cristiana della Nigeria, è da sempre un argomento imprescindibile di propaganda: si tratta di  un disegno non solo religioso ma anche tribale che intende ridefinire a vantaggio degli Hausa gli equilibri e la divisione del potere fra etnie. Quest’ultimo è probabilmente uno dei fattori decisivi: mai come in questa fase politica gli stati del Nord soffrono la totale assenza di leader che li rappresentino a livello del governo centrale. Si è quindi capovolto l’asset lasciato in eredità dagli inglesi, che avevano preferito affidare le redini del potere politico proprio ai rappresentanti del Nord feudale.

La città di Jos è l’emblema della Nigeria divisa, ancora prima dell’avvento di Boko Haram. Capitale dello stato di Plateau, sorge esattamente a ridosso della linea di demarcazione tra area musulmana e area cristiana. Qui, ciclicamente, esplode una violenza incontrollata dove la religione, quando non è il detonatore, è di certo la forza galvanizzante dei massacri di migliaia di persone.

Permane intanto lo stato d’emergenza dichiarato dalle autorità e la chiusura (sebbene di fatto quasi impraticabile) dei confini con Ciad, Niger e Camerun. E’ attualmente in vigore il coprifuoco ad Abuja e negli stati (Borno, Yobe, Niger e Plateau su tutti) dove Boko Haram fa proseliti e ha dimostrato la propria determinazione a colpire duramente qualsiasi obiettivo: uffici governativi, chiese cristiane o professionisti dei media. Ma l’efficacia dello stato d’emergenza è molto dubbia visto che, dando carta bianca a forze di sicurezza già rinomate per i metodi brutali, rischia di esasperare una popolazione frustrata e quindi esposta alla propaganda antigovernativa della setta. 

Azione d’intelligence invece di repressione casa per casa, perequazione delle enormi ricchezze nazionali concentrate nel Sud e nella fascia centrale del paese, e rappresentanza politica per il Nord: sono queste probabilmente le strade maestre per iniziare a gestire, seppure certo non risolvere nel breve periodo, la sfida Boko Haram.