Per mezzo secolo, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, il dibattito strategico europeo è stato dominato dalla paura del decoupling, lo scollamento – si potrebbe dire così -fra Stati Uniti ed Europa. Il timore era che un attacco convenzionale sovietico contro uno dei Paesi europei (e l’Italia era già in prima linea) non avrebbe credibilmente innescato la protezione nucleare americana, ossia il vero deterrente per evitare un’aggressione dell’URSS. Le varie dottrine strategiche elaborate dalla NATO nel secolo scorso hanno tutte cercato di limitare questo problema.
Oggi esiste un nuovo rischio decoupling: quello che abbiamo visto a Parigi, con la decisione di Washington di mantenere un basso profilo di fronte al maggiore attentato in Europa di matrice islamica dopo quelli di Madrid e Londra. Nell’11 settembre francese, Obama si è tenuto a distanza: vedremo se – dopo le giustificazioni logistiche e le rassicurazioni di John Kerry – il discorso sullo stato dell’Unione eliminerà la sensazione che dove l’URSS non era riuscita stiano invece riuscendo cellule europee di una galassia terrorista islamica quanto mai frammentata.
La verità è che – di fronte al problema di come “trattare” l’Islam radicale – esistono posizioni diverse fra le due sponde dell’Atlantico. Il decoupling è culturale prima che politico.
L’America, per le ragioni che Tocqueville ha spiegato una volta per tutte, condanna gli attacchi irriverenti alla religione come parte dell’hate speech, l’incitamento all’odio. Il laicismo della République, il valore assoluto della libertà di espressione, trovano comunque dei limiti in un Paese, l’America, dove è Dio a proteggere la nazione e il suo popolo.
Su Charlie Hebdo, Obama e il Papa – i capi dei due Imperi rimasti – sono più vicini fra loro di quanto non lo siano a Parigi. Per chi abbia letto il New York Times nelle settimane post-11 settembre della Francia, o meglio dell’Europa, questo dato è abbastanza evidente. E produce una buona dose di cautela rispetto a un accostamento troppo netto alla satira senza filtri di Charlie Hebdo.
Poi viene la politica e qui entriamo nel campo minato delle polemiche fra europei e americani seguite al caso Edward Snowden. Viste le reazioni durissime (tedesche in particolare) allo spionaggio americano in Europa, il grado di cooperazione fra servizi non è certo aumentato. Non a caso, la promessa seguita agli attentati di Parigi – su entrambi i lati dell’Atlantico – è la promessa di uno scambio di informazioni più attivo e proficuo. Speriamo: in questo caso il decoupling esiste d’altra parte fra gli europei stessi. Mentre il Congresso americano ha intanto respinto la riforma dei sistemi di intelligence sostenuta da Obama, dopo le polemiche con Berlino.
È ormai evidente (con dieci anni di ritardo almeno) quanto sarebbe necessaria una politica europea della sicurezza interna, comune (non solo a parole) e con investimenti adeguati: ma il fatto che sarebbe necessaria non significa che sarà anche realizzata in tempi rapidi, al di là delle prime scelte di questi giorni sulla sicurezza dei voli aerei e il controllo dei passeggeri. In ogni caso, l’effetto dell’11 settembre di Parigi sarà di produrre un rafforzamento, anche nel nostro continente, del settore della homeland defense: da questo punto di vista, il gap fra Europa e Stati Uniti potrebbe ridursi. Con tutte le discussioni che ne conseguono sul “giusto” equilibrio fra sicurezza e libertà, sulla circolazione delle persone, sulla gestione delle migrazioni.
In parte culturale, in parte politico, ma non solo: il decoupling potenziale fra Stati Uniti ed Europa nasce anche, obiettivamente, dalla diversa collocazione geografica. E da una scelta geopolitica precisa. Il tentativo di Washington, dal 2001 in poi, è stato di esternalizzare il rischio. Di spostare il “fronte” della “guerra globale al terrorismo” lontano da New York e da Washington. È impossibile capire gli interventi in Afghanistan e in Iraq – al di là della diversità dei due casi, di grandi errori, di esiti deludenti – senza tenere conto di questo riflesso americano. A differenza di Bush, Obama ha chiuso due guerre e ha a lungo esitato sul conflitto in Siria; ma usa i droni in una logica simile, colpire il nemico lontano.
Per gli europei, molto più direttamente esposti alle crisi del Medio Oriente allargato, “esternalizzare” il conflitto, tenerlo a distanza, è quasi impossibile. Come dimostra il fenomeno dei foreign fighters, i fronti sono ormai molto labili. Il rischio – e la lezione di Parigi – è che la guerra interna all’Islam possa finire per diventare anche guerra civile europea.
Un decoupling odierno fra Stati Uniti ed Europa è in genere immaginato (forzando molto la tesi) come lo spostamento dell’America verso l’Asia; potrebbe essere invece il risultato non voluto delle tendenze che ho descritto. Vladimir Putin, come l’Unione Sovietica del secolo scorso, non è riuscito ad ottenere un vero scollamento fra le due sponde dell’Atlantico. Se ci riuscissero le cellule sparse di Al-Qaeda o quelle del Califfato, l’Occidente diventerebbe molto più vulnerabile di quanto non sia in realtà. Per evitare questo esito, le differenze che esistono non vanno trascurate ma affrontate: tenere insieme le due parti dell’Atlantico, nell’età dell’insicurezza diffusa, è interesse comune.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata dal quotidiano italiano La Stampa.