L’accordo commerciale di nuova generazione TPP (Trans-Pacific Partnership) è il progetto che potrebbe cambiare il volto della zona più dinamica dell’economia mondiale, cioè il bacino dell’Oceano Pacifico.
Se ne è iniziato a parlare quattro anni fa, per estendere il Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPSEP o P4) – firmato nel 2005 da Brunei Darussalam, Cile, Nuova Zelanda e Singapore – ad Australia, Malesia, Peru, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. In occasione del quindicesimo round di negoziati, tenutosi ad Auckland a fine 2012, alla lista si sono aggiunti Canada e Messico. E la coda alla porta si fa più lunga: Taiwan, le Filippine, Laos (che è così poco trans-pacifico da non avere neppure accesso al mare), Colombia e Costa Rica, oltre alla Thailandia che ha annunciato la sua attenzione di aderire in occasione della recente visita di Barack Obama.
All’apparenza il TPP non è che il più recente in una lunga serie di accordi bilaterali e plurilaterali che seguono il fallimento del Doha Development Round che avrebbe dovuto coronare l’agenda dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) guidata da Pascal Lamy: liberalizzazione commerciale multilaterale al servizio di uno sviluppo più giusto e inclusivo. Nelle intenzioni dell’amministrazione Obama, però, il TPP, oltre che ambizioso nella sua composizione (quasi un terzo del PIL mondiale, se Giappone e Corea decidessero di aderirvi), dovrebbe essere anche un modello, o perfino “il modello”, di accordo commerciale con standard molto elevati. Un colpo a destra con l’inclusione dei diritti della proprietà intellettuale, uno a sinistra con l’attenzione alla legislazione in materia di ambiente e di lavoro.
Per le nuove amministrazioni da poco elette in Corea e Giappone, una delle prime decisioni importanti sarà appunto se aderire o meno. L’ex primo ministro nipponico Yoshihiko Noda aveva promesso di accelerare l’ingresso nel TPP, anche se all’atto pratico fino a quando esercitava il potere non era andato oltre le vaghe promesse. In campagna elettorale il Partito Liberal-Democratico di Shinzo Abe e il suo socio di coalizione, il Partito del Nuovo Komeito, si erano detti contrari a partecipare al TPP se la condizione fosse stata di abolire “indiscriminatamente” la protezione tariffaria dell’agricoltura nipponica.
Dopo aver vinto, anzi stravinto nelle elezioni di dicembre, il discorso è mutato, Abe sembra determinato a fare il gran passo, come del resto sembra convinto della necessità di concludere un accordo bilaterale con l’Unione Europea, malgrado le prevedibili proteste degli agricoltori del Sol Levante. L’obiettivo è “seguire il percorso che meglio può garantire l’interesse nazionale del Giappone”: secondo Hiromasa Yonekura, presidente del Keidanren, la Confindustria giapponese, questo consiste proprio nell’aderire quanto prima ai negoziati del TPP.
In Corea, invece, il TPP è stato a malapena menzionato durante la campagna elettorale; del resto, nel 2008 il semplice annuncio di voler aprire il mercato domestico all’importazione di carne americana era bastato per suscitare un vasto movimento d’opposizione, un “Occupy Seoul” successivamente esteso al progetto di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti poi entrato in vigore nel marzo di quest’anno. Tuttavia, in questi tempi di crisi l’opinione pubblica si è evidentemente convinta che la politica commerciale serve per garantire miglior accesso di mercato per i prodotti coreani, anche in Europa con cui il trattato di libero scambio è operativo dal primo luglio 2011. Peraltro, la Corea ha già accordi bilaterali con la maggior parte dei soci del TPP. Il presidente uscente Lee Myung-bak, indebolito da scandali di corruzione e ritenuto incapace di reagire all’aggravarsi dei problemi sociali di un’economia sud-coreana comunque sempre dinamica, non ha preso nessuna decisione sul TPP. Park Geun-hye, neoeletta alla carica di presidente, sembra disposta ad accelerare il passo, anche se le tensioni politiche e le dispute territoriali con Tokyo rimangono un problema.
Non c’è dubbio che gli interessi in gioco siano complessi e importanti. Per gli Stati Uniti è prioritario un accordo con l’Asia e il Pacifico, la regione del mondo verso cui stanno riorientando tutte le loro politiche, economiche ma anche militari. Sebbene nessuno lo dica apertamente, è ovvio che, anche nel rispetto delle regole del WTO e dell’estensione a tutti del principio della nazione più favorita, nei paesi firmatari un TPP senza Cina garantirebbe condizioni più favorevoli agli esportatori americani, giapponesi e coreani. E la Cina non sembra comunque molto interessata a un TPP in cui si discute di competitive neutrality – le politiche da mettere in atto per garantire le imprese private di fronte ai possibili abusi da parte di quelle pubbliche, che notoriamente la fanno da padroni in Cina.
Naturalmente, al tavolo delle trattative ogni partner ha le sue priorità. Per esempio, oltre che l’agricoltura, per il Giappone i settori sensibili sono le automobili (un mercato che invece in Corea è ormai poco protetto quantomeno dal punto di vista tariffario) e i servizi finanziari (in particolare assicurativi). Per ambedue, e per molti altri, mantenere un certo margine di preferenza nazionale per gli appalti pubblici, soprattutto per le grandi infrastrutture energetiche e dei trasporti, è una sorta di linea rossa da non superare. Soprattutto se Washington non è disposta a sua volta a fare delle concessioni, tanto più importanti perché la parola dell’amministrazione durante le trattative non impegna comunque in alcun modo il Congresso e il Senato. In più l’opinione pubblica americana, o quantomeno i gruppi anti-globalizzazione, sono molto critici e accusano l’amministrazione Obama di voler imporre un’apertura indiscriminata anche a paesi ancora fragili, di includere nei negoziati temi nuovi come i brevetti, e di gestire l’intero processo con scarsa trasparenza.
I negoziatori, che si riuniranno a Singapore dal 4 al 13 marzo per la sedicesima volta, sono ottimisti che un esito positivo è possibile entro quest’anno. Il TPP ha 29 capitoli specifici e sui temi ancora critici, come controlli doganali, telecomunicazioni, barriere tecniche al commercio, questioni sanitarie e fitosanitarie il testo è in costante negoziazione – nel gergo diplomatico, è ancora tra parentesi.
Le implicazioni sono altrettanto importanti per l’Europa – Italia compresa, naturalmente. Meglio preparare velocemente le contromosse se non si vuole che l’Europa perda ulteriori passi nella tenzone della competitività globale, sapendo che per una volta le armi a disposizione sono tante. La più ovvia è accelerare sul fronte degli accordi con il Giappone e l’ASEAN. Nel medio periodo, ma senza aspettare le calende greche, andrà firmato con gli Stati Uniti un accordo di libero scambio (che oltretutto l’Unione Europea ha già con Canada e Messico) che faccia da contraltare atlantico al TPP.
Soprattutto, le necessarie riflessioni sull’unione bancaria e sul coordinamento fiscale non devono essere la scusa che distrae le cancellerie europee dalla piena realizzazione del mercato unico. Nel 2013 si celebra il venticinquesimo anniversario della pubblicazione del Rapporto Cecchini, realizzato su richiesta di Jacques Delors per quantificare i costi della non-Europa. Ancora oggi le barriere alla circolazione intra-europea dei beni, e soprattutto dei servizi, sono enormi. Per non parlare poi degli ostacoli alla mobilità delle persone, che impediscono all’eurozona di acquisire le caratteristiche di una zona monetaria ottimale. Come notava Mario Monti nel rapporto rimesso al presidente Barroso nel maggio 2010, “il mercato unico ha cominciato ad essere percepito come una cosa d’altri tempi, che necessita di una manutenzione periodica, ma non di una promozione attiva”. Proprio perché il resto del mondo sta accelerando, sarebbe cosa buona e utile che i dirigenti europei mostrassero maggiore leadership e promuovessero la realizzazione del mercato unico come la principale iniziativa a costo zero che rimuova il Continente dalle secche della recessione.
Un versione leggermente diversa di questo intervento è stata pubblicata su www.linkiesta.it il 4 gennaio.