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Il momento critico per la presidenza Rousseff in Brasile

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Difficile pensare ad un mandato presidenziale cominciato peggio. Riconfermata Presidente della Repubblica – seppure con una maggioranza risicata – nelle elezioni di novembre 2014, Dilma Rousseff in un trimestre di governo ha già raggiunto una valutazione negativa o pessima del 64% dei brasiliani, secondo un sondaggio effettuato a fine marzo 2015 dall’istituto Ibope. Conseguenza del gravissimo scandalo di corruzione legato a Petrobras, scoppiato da oltre un anno? Senz’altro è una parte importante della questione.

L’operazione giudiziaria Lava Jato, “lavaggio rapido”, ha portato alla luce centinaia di milioni di euro di mazzette che transitavano (e probabilmente ancora transitano) con schemi e tecniche di grande complessità e sofisticazione da Petrobras ai suoi fornitori, e dai fornitori ai partiti politici della maggioranza di governo. Le tangenti in questione, peraltro, potrebbero anche aver finanziato buona parte della campagna elettorale di rielezione di Dilma. E sono frequenti, sulla stampa brasiliana, i paragoni con la stagione di Mani Pulite in Italia.

Ma il “caos politico”, per usare l’espressione di un documento pubblicato dallo stesso governo, non è soltanto frutto della questione morale. Anche perché la Lava Jato è appunto cominciata oltre un anno fa: ci sarebbe stato tutto il tempo per trasformare l’indignazione dell’opinione pubblica in un voto per l’opposizione alle elezioni politiche; ma per tutta la durata della campagna elettorale il tema “corruzione” è stato sostanzialmente un tema secondario.

La campagna invece è stata quasi interamente centrata sui temi economici, con la contrapposizione tra un programma di riforme strutturali e tagli anche dolorosi difeso da Aécio Neves, candidato di opposizione del PSDB, e la difesa assoluta della politica economica micro-interventista del primo mandato di Dilma Rousseff. Una volta eletta, però, Dilma ha dovuto cedere alle pressioni dei mercati e ai segnali di peggioramento drastico dei conti pubblici e nominare una squadra economica più in linea con il programma del PSDB che con quello del suo PT.

Squadra che ha cominciato ad annunciare riforme, tagli e correzioni di rotta: per ricevere però sonore smentite e tirate d’orecchie proprio dalla Presidente, che difende ancora pubblicamente la politica degli ultimi quattro anni. Dal punto di vista dell’opinione pubblica il risultato è da teatro dell’assurdo: le fasce di elettorato di Dilma più a sinistra non le perdonano di aver nominato un Ministro delle Finanze liberal, Joaquim Levy, che tenta di introdurre correzioni di spesa e limitare sprechi oggettivamente indifendibili per rimettere in ordine i conti pubblici; e le fasce più moderate, insieme alle opposizioni, non le perdonano di non lasciarlo lavorare come dovrebbe.

Nel frattempo, l’economia peggiora. Il Paese è in recessione, l’inflazione ha sfondato il tetto del 6,5% della fascia di oscillazione che la banca centrale considera accettabile ed è proiettata per il 2015 intorno all’8%, il tasso di sconto è dovuto quindi risalire al 12,75%. Così, la disoccupazione ha lasciato i minimi storici (5% nel 2014) ed è risalita al 7,4%: in termini assoluti, significa che il numero totale di disoccupati è aumentato quasi della metà. Tutti dati che la maggioranza degli elettori brasiliani può anche non saper interpretare, ma sicuramente “sente” quotidianamente attraverso la perdita di potere d’acquisto. E che rappresentano sostanzialmente il contrario della martellante campagna presidenziale all’insegna dell’ottimismo voluta dagli spin doctor di Dilma.

Un contesto difficilissimo, insomma, di cui approfittano i ben nove partiti della coalizione di governo per cercare di aprire spazi di visibilità e trattativa: decreto per decreto, sottosegretariato per sottosegretariato, nomina per nomina. Il PMDB, partito di centro “fisiologicamente” presente in tutti i governi democratici dal 1986 ad oggi, espressione di aristocrazie latifondiarie e clientele regionali, sostiene ufficialmente il governo Dilma ma boccia sistematicamente in Parlamento tutti i provvedimenti proposti, comprese le manovre economiche di Levy. E spera, neanche tanto segretamente, che le opposizioni richiedano l’apertura di un procedimento di impeachment: il Vicepresidente Michel Temer, che diventerebbe Presidente della Repubblica se Dilma fosse cacciata, è espressione proprio del PMDB.

Ma l’impeachment non sembra una condizione né politicamente né soprattutto costituzionalmente percorribile. Politicamente, perché negli ambienti di opposizione Temer non è considerato certamente migliore dell’attuale Presidente, e perché per il PSDB è conveniente lasciare il governo (e il Paese) in una lunga crisi di tre anni per poi vincere facilmente le prossime politiche. Costituzionalmente, perché il Brasile è una repubblica presidenziale, non parlamentare. Non esiste il voto di sfiducia del Parlamento: chi è eletto governa per quattro anni. La procedura di impeachment si applicherebbe in caso di crimini del Presidente contro lo Stato, eventualmente anche prima che passino in giudicato, ma commessi nell’esercizio delle funzioni presidenziali: e questo è stato il caso di Fernando Collor de Mello, coinvolto personalmente in uno scandalo di corruzione durante il suo mandato e sostituito alla fine del 1992 dall’allora Vicepresidente Itamar Franco. Il caso di Dilma è diverso: anche se si dovessero rintracciare evidenze del suo coinvolgimento diretto negli schemi di corruzione di Petrobras, i fatti risalgono all’epoca in cui era Ministro del governo Lula, o tutt’al più al primo mandato presidenziale, ma non al primo trimestre del 2015.

Quali vie d’uscita, allora? Difficile prevederlo. Il “caos politico” potrebbe risolversi, come spesso succede in Brasile, in molto rumore e pochissimi cambiamenti, – cosa accaduta anche recentemente con le proteste popolari di giugno 2013. In ogni caso, stabilizzare la situazione richiede una capacità di articolazione politica molto diversa da quella di Dilma Rousseff, notoriamente dura e intransigente: e così, sempre più spesso in questi giorni, l’ex Presidente Lula lascia il suo ufficio di San Bernardo do Campo e va a Brasilia, articolando, mediando, ricucendo, tessendo…