Il 22 marzo, l’allora primo ministro libanese, Najib Mikati, ha presentato le sue dimissioni, facendo cadere un governo che da due anni faticava a governare il paese. Due sono le principali ragioni che hanno portato Mikati a dimettersi: da un lato, il rifiuto da parte della coalizione filosiriana “8 Marzo” (di cui fa parte anche Hezbollah) di sostenerlo nel tentativo di formare un comitato di controllo elettorale; dall’altro, il rifiuto, da parte della stessa coalizione di approvare l’estensione del mandato del direttore generale delle Forze di Sicurezza interne, generale Ashraf Rifi. Non vi è dubbio che le sue dimissioni andranno ad incidere sul precario equilibrio politico.
Le dimissioni di Mikati sono anche il risultato di intense pressioni da parte delle fazioni libanesi anti-siriane. La precaria neutralità ufficialmente mantenuta dall’esecutivo rispetto al conflitto in Siria, che ha prevalso con Mikati, potrebbe ora avere termine. Senza un’intesa nazionale potrebbero deteriorarsi ulteriormente i rapporti fra i sunniti e gli sciiti libanesi, tra la coalizione “14 Marzo”, guidata dal partito Al-Mustaqbal (Il Futuro) di Saad Hariri, e la coalizione “8 Marzo”. È in tale contesto che potrebbero proliferare e consolidarsi i già radicati gruppi sunniti più oltranzisti d’ispirazione salafita e jihadista. A tal proposito, il quotidiano libanese Al-Akhbar riferisce, in un articolo dell’8 aprile, dell’arrivo a Beirut di una “delegazione” di Al-Qaeda proveniente dalla Turchia, che avrebbe incontrato alcuni sceicchi salafiti e personaggi jihadisti, con l’obiettivo di sostenere la jihad contro il regime siriano. Ciò pone un nuovo e allarmante interrogativo sull’estensione del movimento salafita e jihadista in Libano, alla luce del consolidamento della principale organizzazione jihadista attiva in Siria, il Fronte Al-Nusra.
Non è un caso che le recenti provocazioni dello Sheikh Ahmad al-Asir – imam della moschea Bilal bin Rabah a Sidone, nel sud del paese, e figura di spicco del salafismo libanese – contro l’organizzazione sciita di Hezbollah, abbiano alimentato timori che la guerra in Siria possa tracimare in Libano. Al-Asir e i suoi sostenitori chiedono con insistenza il disarmo del movimento sciita libanese, e di recente hanno organizzato sit-in e manifestazioni contro il Partito di Dio. L’esercito libanese, verso la fine di febbraio, è stato schierato proprio nell’area di Sidone per scongiurare nuovi scontri in città.
Sul fronte opposto, Hezbollah non ha mai nascosto il desiderio di modificare gli accordi di Taif del 1989, che formalmente posero fine alla guerra civile libanese. In un recente discorso, il leader Hasan Nasrallah ha proposto la formazione di un’Assemblea Costituente per elaborare una nuova Costituzione. È evidente che un conflitto sull’ordine costituzionale potrebbe mettere a repentaglio l’intesa di Taif e rendere più complesse le trattative per un accordo.
È in questo clima che il 6 aprile, il deputato sunnita Tammam Salam è stato nominato primo ministro. La nomina avviene in un momento in cui il regime di Al-Assad è naturalmente più impegnato nel fronte interno piuttosto che a influenzare gli affari libanesi, con il rischio di indebolire Hezbollah. Il neoeletto premier, il primo a essere nominato indipendentemente da pressioni siriane, tuttavia, ha già preso una prima posizione nei confronti degli apparati militari che non fanno direttamente capo allo Stato libanese e, riferendosi piuttosto chiaramente a Hezbollah, ha dichiarato che “la decisione della guerra e della pace spetta soltanto allo Stato”.
La nomina del nuovo premier non risolve di per sè la crisi politica del paese, che il prossimo giugno sarà chiamato alle urne per le elezioni legislative – anche se non si esclude che tali elezioni possano slittare di alcuni mesi – per cui rimane irrisolta la questione di quale legge elettorale debba essere utilizzata. Tuttavia, la nomina di Salam e la conseguente formazione dell’esecutivo potrebbe davvero rappresentare una nuova fase della storia libanese: una sorta di “nuovo Taif” verso una durevole riconciliazione nazionale.
Gli ostacoli più evidenti sono quelli sul piano della sicurezza, dove persistono – e alla luce del conflitto siriano stanno anzi crescendo – le minacce alla stabilità del sud del Libano e alla stessa presenza del contingente internazionale di UNIFIL nella zona. I violenti combattimenti, anche settari, in corso in Siria stanno avendo gravi ripercussioni anche in Libano, dove si sono già verificati scontri tra i sostenitori dei ribelli siriani e quelli di Al-Assad, in particolare nel nord, a Tripoli.
Recentemente, anche il contingente italiano si è detto preoccupato. Alla fine di marzo, il direttore dell’Agenzia per le Informazioni e la Sicurezza Esterna (AISE), generale Adriano Santini, è volato a Beirut (come segnala un’agenzia de Il Velino dello scorso 29 marzo) per incontrare il comandante in capo delle Forze armate libanesi, il generale Jean Qahwaji, e il capo dei Servizi di Sicurezza militari, generale Edmond Fadel. L’incontro si prefiggeva di esaminare le condizioni di sicurezza in cui operano in Libano i 1.100 soldati italiani del contingente UNIFIL e il rischio che esso diventi un bersaglio per eventuali attacchi jihadisti.
L’UNIFIL è inoltre esposta alle critiche del governo israeliano, secondo cui la missione internazionale non avrebbe raggiunto i suoi obiettivi, che originariamente includevano anche il disarmo di Hezbollah e degli altri gruppi armati. Ne ha parlato recentemente il consigliere del premier israeliano per la sicurezza nazionale, Yaakov Amidror, il quale, in un intervento presso l’Università di Tel Aviv, ha dichiarato che “l’armamento pesante di Hezbollah rappresenta un fallimento di UNIFIL”. L’esercito israeliano ha intanto fatto sapere che si sta addestrando per una nuova possibile occupazione del Libano.
Gli spiragli di cauto ottimismo, insomma, si inseriscono in un quadro che resta molto preoccupante e in una condizione di stabilità quantomeno fragile.