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Il nuovo realismo americano di fronte alla questione israelo-palestinese

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Israele e i territori palestinesi sono stati oggetto di molta attenzione da parte dell’amministrazione Obama negli ultimi giorni, in cui si sono succedute in una settimana le visite del presidente e del suo nuovo Segretario di Stato Kerry, a cui seguirà quella del ministro della Difesa Chuck Hagel il prossimo 23 aprile. Un tale attivismo da parte americana potrebbe fare pensare che si prepari il terreno per un effettivo rilancio del processo di pace, non fosse che le attuali condizioni politiche create dal nuovo governo Netanyahu (il terzo) e lo stesso discorso pronunciato da Obama in Israele smentiscono di fatto questa possibilità.

Il discorso, pronunciato al Jerusalem Convention Center, davanti ad una pletora di studenti universitari israeliani, non voleva offrire novità sorprendenti, ma contribuire a un riavvicinamento tra l’amministrazione USA e l’opinione pubblica israeliana,  che ha percepito Obama come il presidente USA più indifferente degli ultimi venti anni alla sicurezza e alle ragioni di questo paese alleato.

Le premesse per un riavvicinamento non erano certamente scontate. Guy Millière – opinionista neoconservatore, Professore a Parigi VIII, nonché rappresentante di vari think tank come il Metula News Agency e l’Elie Wiesel Foundation for Humanity – nell’edizione di marzo dell’influente mensile Israel Magazine ha scritto: “Obama è circondato (nel suo secondo mandato) da un’équipe infinitamente più ostile a Israele rispetto a quella che lo assisteva nel suo primo mandato: Hillary Clinton ha lasciato il suo posto a John Kerry, che aveva trovato Bashar al-Assad molto simpatico fino a un anno e mezzo fa e che non ha cessato di pensare che bastasse la diplomazia con l’Iran, e Leon Panetta ha ceduto il suo posto al ministero della Difesa a Chuck Hagel, un isolazionista che si può legittimamente sospettare di essere antisemita.” Tra i presunti dirigenti USA ostili a Israele, Millière elenca anche John Brennan, nuovo capo della CIA, che sarebbe un fine conoscitore del mondo arabo ma non altrettanto di Israele.

Alle nuove nomine ai vertici USA, potenzialmente più fredde o equidistanti nei confronti di Israele, si può aggiungere il problema del deficit federale americano, con gli annunciati tagli al budget della difesa e dunque anche agli aiuti militari internazionali.  Secondo uno studio dell’UPI (United Press International), se il Congresso USA destinava annualmente 3.1 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele, tale cifra si sarebbe ridotta di 263.5 milioni all’anno, andando a pregiudicare alcuni progetti in corso, come il programma di missili Homa, la fornitura di altre 30 batterie anti-missile a completamento dell’Iron Dome e l’approntamento del sistema di missili Arrow 3, capaci di intercettare minacce oltre l’atmosfera terrestre. 

È chiaro, dunque, che lo scopo del viaggio del presidente Obama sia stato principalmente quello di tranquillizzare l’alleato israeliano sulle questioni di sicurezza nazionale, rinnovando le tradizionali garanzie americane – stante che le rassicurazioni formali non erano bastate, come nel caso della l’adozione dell’US-Israel Enhanced Security Cooperation Act nel luglio scorso. La visita si proponeva così di rinsaldare anche simbolicamente i legami che tengono uniti i due paesi sulla base di interessi condivisi. Tuttavia, non si può negare che tali interessi stiano diventando gradualmente sempre meno prioritari per Washington, dato il progressivo disimpegno dal Medio Oriente. D’altro canto, la linea americana non è neppure quella annunciata, appena cinque anni fa, dal celebre “discorso del Cairo”, quando ancora sembrava possibile invertire la rotta delle relazioni tra Stati Uniti e mondo arabo. Con la recente visita, Obama intendeva fissare obiettivi ben più modesti, oltre a riaffermare il sostegno a Israele in merito alla questione nucleare iraniana. In questa ottica, le parole rivolte ai giovani israeliani suonano comunque come un monito piuttosto severo, per cui Israele “sarà lasciato indietro (dagli eventi), a meno che non si decida a compiere delle scelte difficili” (discorso di Obama al JCC, riportato da Alon Pinhas, Ha’aretz, 22/3/2013).  Eventi e scelte a cui, però, gli Stati Uniti intendono prendere parte in misura molto ridotta.

Non è dunque sorprendente che la visita di Obama sia stata percepita negativamente da parte araba. Negli Stati Uniti, Rashid Khalidi (della Columbia University) ha definito gli Stati Uniti un mediatore in mala fede, perché intenzionato a ritrarre il conflitto arabo-israeliano e lo stallo del processo di pace come se entrambe le parti in conflitto – gli Israeliani e i Palestinesi – vi avessero pari responsabilità e pari opportunità di modificare le condizioni in cui sono immersi. Ancora, Richard Falk sul Al-Ahram Weekly del 3 aprile, ha scritto che i giovani del Cairo sono profondamente delusi dal viaggio del presidente Obama, che pare aver sabotato persino le poche speranze che aveva saputo suscitare nel 2008. Anche nei territori palestinesi non vi è stata alcuna attesa messianica e nessun entusiasmo per la visita del presidente, che si è limitato a rinnovare il suo commitment per il fondo US AID – ridotto, e perfino minacciato di chiusura pochi anni fa – e l’impegno finanziario statunitense a sostegno dell’ANP in settori chiave come l’educazione e la salute, evitando così la deriva del governo Abu Mazen (ormai da tutti considerato, pur senza un mandato elettorale, come l’unico governo possibile).

Non è infatti possibile intravedere, oltre le buone intenzioni e la retorica sui “due stati”, le basi sulle quali sarebbe possibile riavviare quei negoziati di pace che si sono arrestati ormai da quasi vent’anni, e in alternativa al percorso tracciato ad Oslo e ormai naufragato. Sicuramente, il 33° governo di coalizione israeliano – da più parti definito il “governo dei coloni” – non avrà alcun interesse a rinnovare un impegno israeliano nei confronti di negoziati di pace definitivi, ma semmai a proporre un impegno limitato a soluzioni ad interim, come quelle più volte annunciate da Lieberman e Naftali Bennet (a capo del partito nazional-religioso Ha-Bayit ha-yehoudi). “Soluzioni” che, di fatto, comporterebbero l’annessione di tutti i maggiori insediamenti ad Israele.

Questa impostazione è del resto in linea con la “politica di pace” del nuovo protagonista politico Yair Lapid, che più che una dirompente novità politica incarna l’ennesimo tentativo di dare vita ad un’iniziativa centrista in Israele, in continuità con una serie di tentativi che si sono succeduti dagli anni ’70 – ultimo dei quali è il Kadima di Ariel Sharon, che ancora nel 2009 contava 27 seggi (oggi ridotti a due). Il centro politico rappresenta la ricorrente aspirazione degli Israeliani di avere un “paese normale”: un’aspirazione continuamente contraddetta dal regime di occupazione permanente dei territori palestinesi in Cisgiordania e dalla conflittualità ed instabilità che tale occupazione perpetua e alimenta su tutti i confini, ivi compresi – dopo le rivolte arabe – quelli della Siria e dell’Egitto che Israele pensava “pacificati” per sempre.

Su questo sfondo, il messaggio dell’amministrazione Obama è che non esiste più una vera alternativa a negoziati diretti tra le parti: né gli Stati Uniti né l’Unione Europea sono realmente intenzionati a farsi protagonisti attivi del processo di pace. Protagonisti saranno Israele, il mondo arabo, e forse, la Turchia, mentre cresce naturalmente il peso degli Emirati Arabi e dei paesi del Golfo, dal momento che possiedono i mezzi per sostenere nel lungo periodo la traballante economia dell’ANP. Washington vede soprattutto di buon occhio un maggiore coinvolgimento turco, che rafforzerebbe la componente sunnita moderata, quasi certamente a netto vantaggio di Israele. Sempre che quest’ultimo si decida, almeno sul fronte turco, a compiere alcune delle “scelte difficili” auspicate da Obama – come la compensazione delle famiglie degli attivisti turchi uccisi nell’incidente della Mavi Marmara nel 2010, dopo il primo gesto politico compiuto con le scuse ufficiali di Netanyahu.