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Il futuro dell’Afghanistan e la comunità internazionale

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Le prospettive dell’Afghanistan restano assai incerte sul piano degli assetti interni, mentre prosegue la tabella di marcia internazionale del ritiro militare e di un programma di aiuti per i prossimi quattro anni. È quanto emerge dalla conferenza internazionale sull’Afghanistan tenutasi a Tokyo l’8 luglio.

Secondo Staffan De Mistura è stata “l’ultima grande occasione per l’Afghanistan”. Secondo l’ex capo della missione ONU a Kabul si è trattato perfino della “ultima conferenza sull’Afghanistan”: l’incubo che rischia di materializzarsi è quello dell’abbandono paventato ormai da almeno un anno, cioè da quando gli Stati Uniti hanno deciso la prima tranche del ritiro dando il segnale del “tutti a casa”.

Il vertice di Tokyo è comunque andato bene, almeno dal punto di vista degli impegni formalmente assunti. Il governo afgano, che inizialmente aveva chiesto un aiuto su base annua di cinque miliardi di dollari e aveva poi aggiustato il tiro allineandosi alle richieste (3,9) della Banca mondiale, se ne è visti attribuire quattro all’anno per un quadriennio. I giapponesi sono stati particolarmente generosi (con circa 3 miliardi) e gli Stati Uniti (pur non fissando cifre precise) hanno garantito a Kabul lo status privilegiato di “non- NATO partner”.

Questa “ultima occasione” ha permesso anche di fare il punto su alcuni nodi chiave: su insistenza soprattutto italiana e svedese, i diritti delle donne (che nel testo originario del documento finale erano soltanto citati) sono stati sottolineati in modo sostanziale. Al punto che Roma, suscitando alla vigilia del vertice una forte preoccupazione dei padroni di casa, aveva minacciato di non firmare il documento finale se non avesse contenuto un preciso riferimento alla questione di genere, obbligando il governo afgano a rispettarla pena la rescissione delle promesse finanziarie. Per il resto tutto è filato liscio. Quella che inizialmente non doveva essere una pledging conference si è trasformata, su insistenza di Tokyo, in un summit che alla fine ha fatto anche le cifre, mettendo nero su bianco un impegno piuttosto cospicuo (come detto, circa 16 miliardi di dollari in quattro anni). Sul piano politico, gli iraniani – che si temeva avrebbero usato il palco della conferenza per qualche uscita imbarazzante o per porre il veto su qualche parte del documento – sono stati tranquilli. E, a parte qualche rilievo russo – più per dovere che per sostanza – l’accordo sul documento ha marciato in discesa. Restano comunque alcune zone d’ombra, soprattutto in chiave economica.

L’accordo sulla Transformation Decade prevede un meccanismo di controllo budgetario affidato alla Banca mondiale, ma lo scetticismo su questo punto è diffuso. Benché lo slogan del vertice fosse mutual accountability, non si può certo dare per scontato che gli afgani si assumano le proprie responsabilità in modo trasparente. Secondo i dati rilasciati dalla Banca mondiale e dello stesso governo afgano, negli ultimi due anni l’aiuto internazionale ha contribuito per un totale di circa 15,7 miliardi di dollari, ossia quasi l’intero budget dello stato (17,2 miliardi nel periodo 2010-2011). I donatori si sono impegnati a sostenere la spesa militare (ossia quella che copre la voce “sicurezza” e vale 8,6 miliardi) e quella civile (oltre cinque miliardi), ma non più totalmente. I donatori garantiranno infatti – come è stato stabilito lo scorso maggio – 4,1 miliardi l’anno per la sicurezza (la metà) e circa quattro per la spesa civile. In termini reali, l’aiuto si ridurrà di circa il 50% nei prossimi quattro anni, avviando poi una decrescita che vedrà il contributo esterno, dopo il 2015, ridursi sensibilmente. Gli afgani ce la faranno? I donatori temono che il capitolo “lotta alla corruzione”, al centro dell’intervento di Karzai al summit, faticherà a diventare effettivo. Anche sulla capacità di buon governo, ossia di gestione della cosa pubblica – dall’erogazione dei servizi alla gestione delle finanze, fino al settore delle imposte e delle dogane (dove i dati di crescita sono buoni, attorno al 20% e superiori alle aspettative) – le aspettative sono caute. Quando, durante la conferenza stampa finale, un giornalista afgano ha chiesto al ministro degli Esteri Zalmai Rassoul come lo stato avrebbe garantito i servizi, il capo della diplomazia afgana si è risentito: “Lo faremo!”, ha detto due volte, mostrando un’insofferenza che non ha effettivamente aiutato a comprendere in che modo Kabul intenda far fronte agli impegni.

L’economia resta dunque la preoccupazione maggiore, in un quadro in cui l’export afgano è stato danneggiato dall’apprezzamento dell’afghanis sul dollaro – il che rende prodotti e servizi nazionali meno competitivi rispetto ai paesi confinati, la cui divisa (Tagikistan, Pakistan, Iran) si è deprezzata in media del 50% sul biglietto verde. Il mercato del lavoro, che vede ogni anno l’ingresso di 400mila nuove figure, resta asfittico e pesantemente condizionato dal lavoro informale, precario e con scarsissime garanzie non solo di lungo impiego ma anche di sicurezza. L’Afghanistan ha un enorme potenziale minerario (con alcuni accordi già negoziati soprattutto con i cinesi, tra gli attori esterni più attivi nel paese); ma sui contratti conclusi dal governo con partner stranieri si sa poco e non ci sono affatto garanzie che si tratti di “buoni” contratti, in grado di garantire più gli afgani che non i pagatori di affitti e royalty. L’economia dell’oppio, benché le stime diano in calo la produzione, continua a pesare e a foraggiare il mercato illegale in un quadro che resta di estrema miseria e diseguaglianza sociale: il 36% degli afgani vive sotto la soglia di povertà, e dei suoi 34 milioni di abitanti ben otto milioni si trovano in condizione di insicurezza alimentare.

Il problema è che alla vulnerabilità di un’economia fragile e a un quadro sociale che continua a preoccupare, la politica non sembra in grado di dare una risposta. Gli occhi sono puntati sul palazzo di Karzai, in attesa di capire cosa farà il presidente. Nemmeno gli americani mostrano di sapere quali siano le sue intenzioni alla vigilia delle prossime tornate elettorali: le presidenziali nel 2013 e le parlamentari nel 2014. L’insofferenza mostrata del ministro degli Esteri Rassoul verso la stampa indipendente (uno dei settori più progrediti del “nuovo Afghanistan”) è probabilmente un indicatore del malumore con cui il governo attuale vive l’idea di essere di fatto sotto tutela. Durante la discussione sul documento finale, gli afgani hanno fatto molta resistenza all’insistenza di alcuni donatori sul nodo “società civile”, a torto finito in un unico capitolo col “settore privato” (a torto perché l’uno è non-profit, l’altro lo è). Benché a Tokyo i giapponesi avessero organizzato una pre-conferenza di due giorni dedicata proprio alla società civile afgana, il documento finale ha recepito le raccomandazioni degli oltre 30 delegati arrivati da Kabul liquidandole in sole due righe che dicono, testualmente, che “il governo afgano prende nota….”. Poco per chi credeva che Kabul avrebbe accettato più di buon grado il confronto con un segmento di società afgana molto cresciuto specie negli ultimi due anni, sia per coscienza critica democratica che per livello intellettuale. Un apporto che, guardando con una vista lunga, sarebbe da salvaguardare.

Insomma le incognite restano tutte, non ultima quella del processo di pace, in apparente stallo e di cui a Tokyo si è evitato di parlare: il convitato di pietra talebano si è fatto vivo solo nelle domande dei giornalisti. La prossima ministeriale è comunque fissata tra ben due anni: intanto, ci sarà il ritiro delle truppe da completare entro il 2014.