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Il fiscal compact per l’euro: una questione di forza legale ed efficacia

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Già il dicembre scorso si era intuito che il cosiddetto “Fiscal Compact” avrebbe avuto una marcata impronta teutonica. In quella data i capi di Stato e di Governo di alcuni paesi dell’Eurozona hanno approvato la dichiarazione comune sul il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria che si firmerà nei prossimi giorni. La filosofia a cui si ispira è chiara: la priorità è su ferree procedure di monitoraggio e supervisione dei conti pubblici sulla falsariga dei dispositivi di soft law varati nell’ultimo anno e mezzo (Semestre Europeo e Patto Euro Plus), senza però alcun sostanziale conferimento di competenze in materia economica e di bilancio a nuove (o vecchie) istituzioni sovranazionali.

Secondo quanto emerge da una lettera del Ministero delle Finanze tedesco indirizzata ai componenti della Commissione Bilancio del Bundestag, l’emissario della Cancelleria, Nikolaus Meyer-Landrut, ha finora insistito con i colleghi europei su tre punti: il coinvolgimento della Corte di Giustizia nella procedura di infrazione per deficit eccessivo; il via libera dell’ESM in contropartita all’implementazione delle misure di austerity derivanti dal Trattato (secondo il motto merkeliano “solidarietà in cambio di solidità finanziaria”); e, infine, la collocazione giuridica del nuovo Trattato tra le fonti di diritto primario della UE.

Ad oggi, l’ultima bozza preparatoria contiene nel Preambolo lo scambio tra «granting of assistance» e «ratification of this Treaty» e all’art. 8.2 la previsione che le sanzioni in caso di sforamento (nell’ordine dello 0,1% del PIL) siano versate al veicolo di stabilizzazione permanente, ESM. A ciò si aggiunge la possibilità, peraltro già prevista dal diritto UE e mai sfruttata nei più di dieci anni di vigenza del Patto di Stabilità e Crescita, che ciascuno Stato aderente al “Fiscal Compact” – ma non direttamente la Commissione europea, come avrebbe voluto Berlino – citi in giudizio dinanzi alla Corte di Giustizia un altro Stato per violazione dei propri obblighi.

Per il resto, la Germania preme per avere regole dettagliate sul “pareggio di bilancio”, mentre altri Stati spingono in senso opposto per avere un trattato più snello, rimandando ad atti legislativi di rango secondario la normativa di dettaglio. La sensazione è che l’ultima versione dell’art. 3, che contiene le norme in materia di bilancio, si sia arricchita di nuove disposizioni, in particolare prevedendo (al punto “e”) un non meglio specificato meccanismo di correzione automatica in caso di deviazioni dall’obiettivo di medio termine (un rapporto deficit-PIL annuale pari allo 0,5%). Peraltro, sempre in tema di conti pubblici, molti Stati sostengono di incontrare difficoltà nell’implementare tale regola direttamente nelle costituzioni nazionali, il che pare più di ogni altra cosa aver rallentato le trattative, dal momento che, secondo il documento del Ministero delle Finanze, «la Germania ha ulteriormente ribadito i termini molto chiari della decisione del Consiglio europeo del 9 dicembre, secondo la quale il pareggio di bilancio va ancorato nelle costituzioni nazionali».

Su altre questioni si sarebbe invece già raggiunta un’intesa con le controparti. In particolare, l’opposizione alle sanzioni per la violazione del nuovo patto sarà d’ora in poi ammissibile soltanto a maggioranza qualificata (senza comprendere il voto dello Stato membro inadempiente). Anche sui tempi dell’entrata in vigore si sarebbe ormai tutti d’accordo: il Trattato esplicherà i suoi effetti a partire dal 1 gennaio 2013, se nel frattempo l’avranno ratificato almeno tredici Stati. Sul punto la Germania avrebbe voluto alzare ancora l’asticella.

La questione di fondo da risolvere riguarda però il nodo dei rapporti tra questo diritto limitato all’Unione economica e monetaria e le fonti primarie e secondarie del diritto dell’UE, ovvero se e in che misura alle istituzioni unionali possano essere conferiti poteri di applicazione delle norme contenute nel nuovo trattato. Stando al parere legale redatto su incarico del gruppo ecologista al Parlamento europeo dal professor Ingolf Pernice (ordinario di diritto pubblico alla Humboldt Universität di Berlino), si tratterebbe in linea di principio di un accordo di diritto internazionale pattizio. Come tale, esso non incide direttamente sui poteri attribuiti agli organi esecutivi e legislativi unionali, ma – laddove non si limiti a confermarli – predispone nuovi obblighi, nonché meccanismi di controllo e correzione in caso di loro violazione che difficilmente si prestano ad essere incorporati nel diritto UE senza modificare il Trattato di Lisbona. Ad esempio, in tema di inserimento del “freno ai debiti” nelle costituzioni nazionali, le istituzioni europee «do not provide for the necessary powers to enact such obligations of the Member States by secondary legislation». Non diverso il problema del mancato ottemperamento alle pronunce della Corte di Giustizia UE in caso di sforamento dei parametri o dell’imposizione di multe agli Stati da parte di quest’ultima. Secondo Pernice si tratterebbe di disposizioni non coperte dai Trattati europei e perciò di difficile enforcement. Senza contare che creare strutture parallele di coordinamento e controllo rispetto a quelle già varate in sede europea «could raise problems for the proper and efficient functioning of the existing system».

In buona sostanza, sembra trattarsi di un trattato internazionale poco incisivo che, per motivi giuridici, non può né conferire nuove competenze alle istituzioni unionali, né attribuire loro compiti esorbitanti rispetto al solco di Lisbona. Quanto è contenuto nell’ultima versione della bozza è infatti di difficile enforcement, o è già previsto dalle norme di rango secondario di cui al cosiddetto Six Pack –  i sei atti legislativi approvati ad ottobre che modificano il Patto di Stabilità e Crescitao ancora costituisce un doppione dei meccanismi di coordinamento già predisposti in sede europea.