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Il fattore Turchia nella futura politica estera americana

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La Turchia, oltre a essere un solido alleato degli Stati Uniti, è oggi un paese estremamente attivo sulla scena internazionale, avendo interessi che vanno dall’Europa al Medio Oriente, dal Mar Nero all’Africa, dall’Asia centrale ai Balcani. Un attore chiave in diverse aree calde, dunque, che può vantare una storica e solida alleanza con l’Occidente, ma che negli ultimi anni ha anche mostrato un grande dinamismo, tanto da spingere molti osservatori a definire di stampo neo-ottomano la politica estera turca.

Ciò si è determinato soprattutto a partire dal secondo mandato di governo dell’AKP, nel corso del quale il partito islamico guidato da Recep Tayyip Erdoğan ha mostrato una maggiore attenzione nei riguardi del Medio Oriente, dell’Asia centrale e dell’Africa – allo stesso tempo interessandosi in maniera minore dell’Europa. L’artefice dell’odierna politica estera turca è il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, che ha teorizzato il concetto di “profondità strategica”: la Turchia, al centro di un “bacino culturale” che comprende Europa, Medio Oriente, Balcani e Asia centrale, deve svolgere una politica internazionale attiva capace di valorizzare appieno la propria posizione strategica. Fondamentale per la riuscita di tale politica è, nella visione di Davutoğlu, una relazione equilibrata verso i vari attori regionali e globali e l’aumento dei legami economici con gli stati vicini. Ciò si è tradotto nell’approccio nominato “zero problemi con i vicini”, che ha prodotto nel corso degli anni un riavvicinamento con Russia, Armenia, Iran, Iraq e Siria.

Nonostante il deterioramento dei rapporti con Israele e la recente crisi con la Siria abbiano di fatto concluso l’esperienza degli “zero problemi con i vicini”, Ankara non ha intenzione di modificare le prospettive di fondo della propria politica estera: l’obiettivo resta quello di proporsi quale ponte tra Occidente e mondo musulmano, così da essere un paese chiave a livello regionale. Ciò è dimostrato dal fatto che Ankara gioca oggi un ruolo importante dal Nord Africa alla Siria, dall’Iran all’Afghanistan, sino ad arrivare al Pakistan.

Alla luce di questi dati, va notato che i due sfidanti per la presidenza degli Stati Uniti, nel corso del loro dibattito sulla politica estera del 22 ottobre, abbiano citato solo due volte la Turchia: la prima quando Obama ha parlato della crisi siriana, la seconda quando Romney ha attaccato il presidente uscente in merito al viaggio compiuto in Medio Oriente all’indomani della sua elezione. La ragione di ciò è forse da ricercarsi nelle tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra Tel Aviv e Ankara negli ultimi anni: entrambi gli sfidanti infatti hanno voluto sottolineare la propria vicinanza a Israele, probabilmente per compiacere l’elettorato ebraico americano.

Occorre tuttavia notare che, mentre Obama nel corso dei primi quattro anni di presidenza ha cercato di non dare l’impressione di avere una politica aprioristicamente filo-israeliana, così da rafforzare un dialogo con i paesi arabi moderati, Romney è parso molto più deciso nel ribadire il ruolo centrale che Israele riveste per gli interessi americani in Medio Oriente. Ciò potrebbe destare non poche preoccupazioni nel governo turco, soprattutto perché la Turchia negli ultimi anni ha potuto riguadagnare un forte credito tra i paesi musulmani anche grazie alle posizioni critiche assunte nei confronti di Israele, riuscendo ad assumere il ruolo di sostenitrice della causa palestinese.

Entrambi i candidati si sono invece detti contrari alla creazione di una no-fly zone al confine turco-siriano, come era stato invece richiesto dal governo turco. Sulla Siria, Obama ha ribadito la propria volontà di sostenere gli oppositori al regime di Assad, ma ha detto di non voler fornire armi, forse scottato dagli esiti della crisi libica. Romney è invece parso su posizioni più vicini a quelle di Ankara, affermando con forza la necessità di fornire armi agli oppositori.

Sul ritiro dall’Iraq, sulla questione iraniana e su quella afghana i due candidati non hanno invece espresso posizioni sostanzialmente differenti. A prima vista non sembra dunque che ci siano particolari divergenze tra Obama e Romney in merito alle aree di crisi che interessano o vedono coinvolta Ankara. La principale differenza sembra essere quella dei rapporti con Israele, se ci si basa oltre che sulle affermazioni fatte nel corso del dibattito, sulla linea tenuta da Obama nel corso del suo primo mandato.

A dispetto delle apparenti somiglianze, i turchi sembrano avere un’opinione ben precisa rispetto ai due candidati: un sondaggio condotto in 32 paesi dalla Barem Research Company sulla politica americana nel mondo ha registrato un consenso del 94% dei turchi per Barack Obama – anche se solo il 23% di questi dichiara di preferirlo perché la sua presenza gioverebbe agli interessi nazionali. Al di là dei sondaggi,  è comunque vero che la linea di Obama in politica estera sembra essere quella che meglio potrebbe rispondere alle grandi linee della strategia di Ankara.

Appare ormai superata la storica visione che vede i Repubblicani tendere all’isolazionismo e i Democratici più coinvolti negli affari internazionali. Oggi la principale differenza sembra essere quella tra un atteggiamento caratterizzato dall’unilateralismo e uno che tende al multilateralismo. Ciò è parso evidente anche nel corso del dibattito. Romney ha parlato di un’America che deve essere “forte” (concetto ribadito più volte), un’America che deve “guidare”. Obama ha invece usato spesso termini come “relazioni”, “cooperazione” e più volte ha parlato degli “alleati”. Tale approccio sembra essere in effetti la principale differenza in politica estera tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti.

La Turchia, da parte sua, sta oggi cercando di affermare il proprio ruolo di potenza regionale attraverso una politica incentrata sull’uso del soft power e sull’ampliamento delle relazioni commerciali con i paesi vicini. Ankara potrebbe dunque trovare maggiore consonanza di vedute con una presidenza Obama – più incline a collaborare con gli alleati – rispetto a una presidenza Romney caratterizzata da un approccio unilaterale ai problemi internazionali: una politica che già ai tempi di George W. Bush vide Ankara irrigidire notevolmente le proprie posizioni, in occasione dell’invasione dell’Iraq.

In ogni caso, il fattore Turchia è destinato a pesare sulle scelte che il prossimo presidente americano dovrà compiere fin dalle prime settimane del suo mandato.

 

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