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La continuità nei rapporti franco-americani in attesa del prossimo presidente

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Durante il dibattito sulla politica estera tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, la Francia non è stata praticamente mai nominata. Le relazioni tra Washington e Parigi sono comunque molto migliorate durante il quadriennio di Barack Obama. Ma anche se l’esito del voto fosse favorevole ai Repubblicani, un ritorno alla visione geostrategica di George W. Bush, invisa alla diplomazia e alla cittadinanza francese, sembra davvero improbabile nel breve periodo: il riavvicinamento tra i due paesi non è in discussione.

Il coinvolgimento francese nei due conflitti-simbolo dello scorso decennio, in Afghanistan e Iraq, misura con esattezza l’alternarsi delle relazioni franco-americane. Nel 2001 Parigi si unisce senza ambiguità all’operazione anti-talebana Enduring Freedom, inviando un piccolo contingente di mezzi e uomini. L’escalation che porta all’invasione dell’Iraq (inverno 2003) sancisce invece una spaccatura profondissima. La Francia non accetta un intervento deciso in maniera unilaterale, che la riduce al rango di paese insignificante e che non ha l’avallo delle Nazioni Unite; se partecipasse, la sua politica araba ne sarebbe compromessa, così come alcuni significativi interessi economici nell’area. Le condizioni perché la situazione cambi maturano nel giro di qualche anno. L’arrivo al potere di Nicolas Sarkozy, atlantista convinto, accompagna il rientro della Francia nel comando supremo della Nato (abbandonato da Charles de Gaulle nel 1966). Il graduale ritiro dall’Iraq favorisce un aumento delle truppe americane in Afghanistan: l’ex presidente decide di appoggiarlo quadruplicando il contingente francese sul posto.

È l’elezione di Obama a rendere possibile un’ulteriore schiarita tra i due alleati. La Casa Bianca opera una netta revisione delle relazioni internazionali caratterizzate dall’unilateralismo e dall’ideologia post 11 settembre, proprie soprattutto del primo quadriennio dell’amministrazione Bush. L’obiettivo è ora quello di rendere più accettabile la supremazia americana agli occhi del mondo. Obiettivo raggiunto, nel caso della Francia: tra i vari temi di cui il presidente candidato ha dissertato durante il dibattito, solo la questione israelo-palestinese divide ancora seriamente i due paesi. L’avvicendamento all’Eliseo non ha mutato la situazione; inoltre, la maggioranza dei francesi appoggia, stando alle inchieste, la politica estera della Casa Bianca.

Il nuovo approccio, basato sulla fine del sistema delle alleanze sulla base dell’adesione alla War on Terror, e sul multipolarismo asimmetrico – secondo cui l’accordo tra l’unica e sola superpotenza mondiale e le varie potenze regionali è il presupposto di qualsiasi azione sul piano internazionale – ha finito per privilegiare, direttamente o indirettamente, il ruolo e gli interessi di Parigi.

La priorità data al riallineamento con la “vecchia Europa” ha troncato il rapporto privilegiato con la Gran Bretagna. La Francia – il paese europeo più citato nei discorsi ufficiali di Obama – è oggi il principale interlocutore politico degli Stati Uniti tra i membri dell’UE. Washington ha dovuto poi constatare l’interdipendenza economica che lega le due sponde dell’Atlantico, e ora considera la risoluzione della crisi dell’euro vitale per un pieno ritorno alla crescita: un’intesa con Parigi – in particolar modo con il neoeletto François Hollande – si rivela fondamentale sia per modificare la politica economica ispirata da Berlino (e disapprovata in America), sia per raggiungere un accordo a livello mondiale sulla regolazione dell’economia finanziaria.

Indubbiamente la Francia ha apprezzato l’abbandono dell’unilateralismo. Il cambiamento investe il rapporto con la Russia, non più considerata come una minaccia letale, ma un interlocutore da tenere in seria considerazione per agire nei confronti di paesi chiave, come Iran e Siria. Il miglioramento dei rapporti con Mosca ha fatto sì che il “progetto antimissile” (installazione di batterie e radar in Polonia e Repubblica Ceca in funzione anti iraniana, ma posizionati vicino alle frontiere russe) fosse ritirato. Parigi (e Berlino), impegnate nella normalizzazione delle relazioni commerciali e nel tentativo di coinvolgere i capitali russi nel salvataggio dell’euro, non possono che condividere questa decisione.

Proprio su questo punto emerge una delle differenze di fondo tra la visione di Obama e quella di Mitt Romney: lo sfidante repubblicano, per quanto abbia decisamente sfumato la propria posizione in occasione del dibattito, si è mostrato fin qui molto più riluttante all’idea di considerare la Russia un partner affidabile: la conferma del dispiegamento dei missili in Europa centro-orientale, garantita da Romney in caso di vittoria, ravviverebbe di certo la tensione con Mosca e non sarebbe bene accolta in Francia.

L’elezione di Hollande potrebbe incrinare, al contrario, il consenso dimostrato da Sarkozy alla visione della NATO propugnata da Obama. Inutile, almeno in questo momento, in chiave anti russa, l’Alleanza Atlantica dovrebbe servire secondo Washington per condurre delle “missioni di sicurezza” (operazioni non accompagnate da un massiccio invio di truppe) applicando in maniera elastica l’articolo 5 del Trattato (intervento per legittima difesa).

Una tale visione ha reso possibile l’intervento franco-britannico in Libia: un’operazione condotta naturalmente sotto il comando strategico americano, ma la cui direzione politica è restata essenzialmente nelle mani di Parigi e Londra. Le ragioni dell’impegno francese sulla sponda sud del Mediterraneo sarebbero però difficili da riproporre in altri scenari (come la Siria): sia per ragioni di consenso interno, sia per la crescente mancanza di risorse, sia soprattutto per l’impossibilità di ricostruire una coalizione a due in cui la Francia occupi un ruolo più che rilevante. Parigi sarebbe piuttosto disponibile, in casi del genere, a una cooperazione europea (di cui assumerebbe facilmente la guida), oppure ad un’azione congiunta esclusivamente con Washington – stante l’opposizione tedesca a questo tipo di operazioni. Quest’ultima possibilità potrebbe concretizzarsi in Mali, dove da tempo si intensifica l’attività delle cellule di al Qaeda: è stato Romney a indicarlo come possibile teatro di un intervento anti-terrorismo.

Dal dibattito è comunque emersa l’intenzione di Romney – che ha notevolmente sfumato alcune sue dichiarazioni delle settimane passate – di non sconvolgere l’impianto generale della politica estera di Obama (criticata semmai per mancanza di fermezza e strategia generale): nessun ritorno all’era Bush, per intenderci. Il ritiro dall’Afghanistan è confermato, e l’accelerazione impressa da Hollande al calendario già deciso da Sarkozy per il rimpatrio del contingente francese è irrilevante.

Si può dire che il realismo di Obama si avvicini al tradizionale atteggiamento (ancora più prudente) di Parigi nei confronti dei paesi magrebini e mediorientali: intese cordiali con i dittatori che tengano a bada gli estremisti islamici; nessun rapporto con le opposizioni. Non è un caso che la Francia sia stata presa di sorpresa dalle primavere arabe, e abbia accolto piuttosto freddamente la caduta dei regimi tunisino e egiziano. Hollande valuterà perciò positivamente il proposito dell’attuale presidente di sostenere l’opposizione siriana solo attraverso l’invio di aiuti non militari e la pressione internazionale; sarà molto più freddo rispetto all’idea di Romney, cioè armare le forze ribelli.

La visione di Obama sembra dunque corrispondere maggiormente agli interessi francesi; ma, come detto, la vittoria dello sfidante repubblicano non rivoluzionerebbe le relazioni tra i due paesi. Finché Parigi vedrà riconosciuto anche solo simbolicamente il proprio ruolo in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (finché dunque gli Stati Uniti riterranno utile il consenso degli altri grandi del mondo), e la propria autonomia decisionale sullo scenario europeo, la concordia franco-americano reggerà.

 

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