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Il fattore Cina nel Mediterraneo: Libia e interessi globali

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Nel braccio di ferro tra Gheddafi e la coalizione internazionale che è ricorsa all’intervento militare in Libia c’è forse già un vincitore: la Cina. Pechino sembra in grado di sfruttare a suo vantaggio la crisi in corso assai meglio di tutti gli altri attori, consolidando l’immagine della Cina come potenza globale.

Nel generale trend di ampliamento degli interessi cinesi in Medio Oriente ed Africa – che molti considerano inarrestabile almeno per i prossimi dieci anni – le ripercussioni della crisi libica presentano alcuni elementi di novità. L’astensione al Consiglio di sicurezza sulla risoluzione 1973, che consentiva l’uso della forza a protezione delle popolazioni civili, costituisce un punto di svolta: in passato, solo nel 1990 la Cina aveva dato l’assenso a un intervento militare multinazionale. In quel caso si trattava però di rispondere all’invasione di uno Stato sovrano (il Kuwait) da parte di un paese vicino (l’Iraq). Le successive dichiarazioni ufficiali di Pechino sono sistematicamente state improntate a ridurre l’impatto di quella decisione e a darne una interpretazione restrittiva.

Il principio della non interferenza negli affari interni dei singoli stati resta la linea guida, ma in questa circostanza si è giocata – per la prima volta – la carta della deroga, mediante la richiesta di un intervento internazionale da parte della Lega Araba e dell’Unione Africana (quest’ultima peraltro alquanto controversa). La giustificazione a caldo è andata espressamente in questa direzione: “siamo contrari all’uso della forza – ha detto una portavoce governativa a seguito del voto del 17 marzo – e quindi esprimiamo riserve riguardo a certi punti della risoluzione…. ma viste le preoccupazioni e le richieste dei paesi arabi e dell’Unione Africana…. la Cina non ha bloccato la risoluzione”. Del resto, l’attuazione del mandato ONU è stata poi apertamente criticata a distanza di poche ore, all’unisono proprio con la Lega Araba e l’Unione Africana. “La Cina esprime il suo rincrescimento per gli attacchi militari contro la Libia”, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri del 20 marzo.

Hu Jintao  ha poi affermato, rivolgendosi a Nicolas Sarkozy in visita a Pechino il 30 marzo, che “se le azioni militari aggravano la crisi umanitaria si configurerà una violazione dello spirito originario della risoluzione”.

Rimane comunque il cambio di passo del governo cinese rispetto a un problema molto delicato: prima della 1973, Pechino aveva votato a favore della risoluzione 1970 del 26 febbraio, che ha imposto una serie di sanzioni alla Libia. Ciò appare confermare nei fatti quanto era stato annunciato da Hu Jintao nel suo ultimo incontro con Obama: non è motivo di contrasto con gli Stati Uniti il principio della tutela dei diritti umani, ma la questione pratica di quali azioni rientrino effettivamente in questa categoria. È appunto il caso della Libia: accordo sul “no” alle violenze perpetrate da Geddafi, ma disaccordo sui bombardamenti aerei per imporre la no-fly zone in nome della salvaguardia dei civili.

Mentre nell’ambito dell’ONU sono dunque da verificare le possibili convergenze con Washington, sembra consolidarsi il fronte dei BRICs, con India, Brasile e Sud Africa sulla stessa lunghezza d’onda – oltre al tradizionale asse con la Russia. Non a caso lo stesso Gheddafi si è rivolto proprio a Cina e India per chiedere di fare cessare i bombardamenti. Si tratta in sostanza dei fautori di un diverso multilateralismo, che comincia ad assumere anche i tratti tangibili degli aerei militari cinesi e della fregata lanciamissili Xuzhou, giunti nel Mediterraneo per supportare le operazioni di sgombero degli oltre 30mila lavoratori cinesi residenti in Libia. Da tale prospettiva, c’è peraltro un’interessante simmetria con la linea di Obama, che nei giorni scorsi ha ribadito come la protezione dei cittadini americani all’estero sia parte del “nucleo duro” degli interessi nazionali. E questa novità nell’atteggiamento di Pechino potrebbe indicare una maggiore attenzione agli umori della propria opinione pubblica, sensibile alle condizioni di vita dei numerosissimi espatriati – con implicazioni importanti, visto che la manopodera cinese è parte integrante della penetrazione economico-commerciale in alcune aree molto instabili del mondo.

La capacità di dispiegamento militare tende logicamente a svilupparsi in tandem con la presenza civile e commerciale: la Xuzhou si trovava già da un anno nel Golfo di Aden nell’ambito delle operazioni contro la pirateria somala, ma nel bacino del Mediterraneo aveva finora svolto soltanto due visite in Italia e Grecia. È inevitabile che, soprattutto a Washington, questa evoluzione venga collegata ai cospicui investimenti cinesi nel settore navale, compresa una portaerei in stadio avanzato di costruzione e nuovi sottomarini.