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Il dilemma della leadership tedesca: egemone o euroscettica?

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“Solo i tedeschi credono nell’Europa”. Così titolava l’edizione online del prestigioso settimanale die Zeit a proposito della recente inchiesta di opinione dell’istituto Pew sull’Unione Europea. Di fronte a dati che segnalano una grave perdita di consenso delle istituzioni di Bruxelles presso le opinioni pubbliche di quasi tutti gli stati membri, con picchi vertiginosi in Francia e Spagna, la Germania sembra restare l’unico Paese nel quale i cittadini non vedono criticamente l’appartenenza all’UE.

Tuttavia, il titolo della Zeit restituisce solo parzialmente il contenuto del sondaggio citato. Se è vero che la maggioranza dei tedeschi si dice favorevole al fatto che la Repubblica federale appartenga all’Unione, lo è altrettanto che nell’arco di un anno tale maggioranza si sia sensibilmente ridotta: dal 68 al 60%. Il trend, dunque, è indiscutibilmente negativo.

Il sentimento antieuropeo è ancora sotto quel livello di guardia che, invece, sembra aver superato altrove. E tuttavia si registrano segnali di insofferenza impossibili da sottovalutare. Primo fra tutti, la nascita di un nuovo partito, Alternative für Deutschland (AfD), che si propone esplicitamente come obiettivo principale la fine dell’euro e il ritorno alle divise nazionali (o la creazione di diverse unioni monetarie “più ridotte e più stabili” di quella attuale).

I sondaggi attribuiscono alla neonata formazione circa il 3% dei consensi, una percentuale insufficiente a superare la soglia di sbarramento per entrare nel Bundestag, ma politicamente non insignificante. Quei voti potrebbero infatti costare molto caro alla coalizione cristiano-liberale guidata da Angela Merkel, impedendole di ottenere la maggioranza assoluta cui aspira alle elezioni politiche del prossimo settembre.

Il nuovo partito, infatti, è frutto dell’iniziativa di ex elettori, simpatizzanti e, in taluni casi, perfino dirigenti delle forze attualmente al governo a Berlino: persone unite dal radicale dissenso proprio nei confronti della politica europea di Merkel, giudicata “pericolosa per il benessere dei tedeschi” in virtù dei troppi “salvataggi” delle economie dei Paesi in crisi. Attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) si elargiscono crediti facili per gli stati “spendaccioni” e per i loro istituti di credito, senza adeguate garanzie né meccanismi di controllo democratico: questa la sostanza dell’accusa al governo tedesco che si legge nel manifesto programmatico dell’AfD. Nulla di molto diverso da quanto sostiene una parte degli artefici del ricorso contro il MES alla Corte costituzionale federale (Bundesverfassungsgericht), chiamata a pronunciarsi in via definitiva a metà giugno sulla compatibilità o meno del cosiddetto “fondo salva-stati” con l’ordinamento costituzionale tedesco.

Il gruppo dirigente dell’AfD, formato in buona misura da docenti di economia di orientamento neoliberista, sottolinea in ogni circostanza utile come la nuova formazione non sia “anti-europea”, dal momento che non sostiene lo scioglimento dell’UE ma una sua riforma. Una riforma nel segno di “un’Europa di stati sovrani con un mercato comune”, dove le competenze legislative tornino quasi interamente ai parlamenti nazionali. Il richiamo alla perdita di democrazia, e ai rischi per il benessere dei cittadini, che l’attuale modello di integrazione europea comporterebbe, è comune ad analoghi movimenti populistici di altri Paesi del continente e può incontrare anche in Germania ascolto fra i settori più conservatori dell’elettorato. Ma non solo: non è da escludere che trovi attenzione anche fra i ceti popolari tradizionalmente vincolati ai partiti di sinistra.

A dimostrarlo è la contromossa piuttosto spregiudicata compiuta da Oskar Lafontaine, scaltro e immarcescibile “uomo forte” della formazione social-comunista Die Linke, della quale è uno dei fondatori. A fine aprile, con un articolo nel suo blog, Lafontaine ha sostenuto, con argomenti diversi, la stessa tesi del nuovo partito anti-euro: la moneta unica va archiviata. Incurante del fatto che la Linke sostenga ufficialmente, invece, la conservazione dell’euro e il mantenimento nell’area della moneta unica dei Paesi in crisi. Da quel momento, la sinistra radicale tedesca è attraversata da una discussione accesa, che dovrà necessariamente chiudersi in tempo utile a definire il programma elettorale in vista del voto di settembre.

Le forze di governo, come detto, sanno che il nuovo partito euroscettico può rivelarsi una spina nel fianco. Non è ancora chiaro quale strategia adotteranno per reagire all’insidia: nei gruppi dirigenti il dibattito è aperto fra quanti ritengono sia opportuno ignorare l’AfD, evitando di legittimarla come nuovo attore sulla scena politica, e quanti pensano invece che vada apertamente contrastata. In quest’ultimo caso, Merkel e i suoi alleati liberali dovrebbero esporsi più di quanto non abbiano fatto sino ad ora nel difendere “senza se e senza ma” le scelte politiche meno popolari, come il finanziamento di istituzioni quali il MES, perdendo margine di manovra per blandire, con qualche misurata ambiguità, l’elettorato più recalcitrante.

Il rischio di guadagnare in chiarezza ma perdere in simpatia andrà calcolato accuratamente dagli strateghi democristiani a liberali. Ai quali senz’altro non può sfuggire il fatto che a molti cittadini tedeschi paia incomprensibile come stiano crescendo sentimenti di ostilità verso la Germania proprio in quei Paesi che, teoricamente, stanno godendo dei generosi aiuti che provengono dalle loro tasse.

Le immagini di Merkel con i baffetti alla Hitler, che si possono vedere a Cipro come in Spagna o in altri Paesi della sponda mediterranea dell’UE, colpiscono l’opinione pubblica e preoccupano gli intellettuali, soprattutto quelli che si stanno sforzando di mantenere aperti canali di comunicazioni con il resto d’Europa. Il rischio, infatti, è che di riflesso possa crescere, in misura ben più significativa dell’attuale, il distacco dei tedeschi dal resto del continente: uno scenario che davvero potrebbe anche significare inquietanti rigurgiti di nazionalismo e di neo-isolazionismo, come talvolta traspare da certi toni della stampa scandalistica (ben rappresentata dalla Bild).

In un simile quadro, la Germania si trova di fronte alla situazione paradossale di essere accusata sia di voler creare (o aver già creato) un’Europa tedesca (secondo la formula di Ulrich Beck) sia, al tempo stesso, di non assumersi fino in fondo il ruolo di potenza egemone che la sua dimensione e la sua forza economica le attribuiscono. Di imporre, cioè, la propria volontà, senza però in cambio voler farsi davvero carico dei destini dei Paesi in difficoltà – come spetterebbe all’attore leader sulla scena continentale.

Dai tedeschi insomma ci si aspetta che agiscano non con il fine di mantenersi immune dal contagio esterno, ma di diffondere il proprio benessere anche a chi lo circonda. Nella risposta alla domanda su come la Germania concepisca la propria egemonia risiede, oltre che il suo proprio destino, quello dell’intera Europa.