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La spina dell’euro per Angela Merkel e il difficile consenso europeo

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La visione economica tedesca è stata capace di imporsi, nel giro di pochi anni, in tutte le capitali del continente come paradigma di azione politica e modello di gestione di bilancio. L’affermazione di tale visione non ha permesso all’Europa di uscire dalla congiuntura negativa; ha avuto però un effetto molto importante all’interno dei confini della Germania: consentire ad Angela Merkel di difendere l’unione monetaria nella sua interezza senza perdere il favore popolare. Alla vigilia delle delicatissime elezioni politiche di settembre, tuttavia, la posizione della Cancelliera si è decisamente complicata.

L’opinione pubblica tedesca considera il rispetto della dottrina di bilancio ispirata da Berlino, dati i risultati economici positivi che il paese continua a registrare, come discriminante per il proprio giudizio politico. Questo garantisce la fedeltà alle istituzioni europee (sebbene in calo, ancora maggioritaria in Germania), e condiziona la grande popolarità di cui oggi gode Angela Merkel.

Ma un tale consenso, basato sulla stabilità della situazione attuale, rischia di rivelarsi un grosso problema per la Cancelliera, alle prese con una serie di elementi nuovi di cui dovrà bene o male occuparsi prima del voto politico. Merkel si trova a dover affrontare in patria una nuova forza politica di stampo liberal-conservatore apertamente favorevole a una riforma della moneta unica e a una selezione più severa dei suoi membri. Un’eventuale presa sull’elettorato di centrodestra delle posizioni euroscettiche di AfD (Alternative für Deutschland) potrebbe costringere l’attuale premier a rendere più intransigente la propria linea, con effetti però fortemente negativi sull’umore di molti partner europei.

All’estero, infatti, sembra essersi ricomposto il fronte dei paesi mediterranei dell’UE che insieme alla Francia – di fronte al lento ma ulteriore e costante peggioramento delle rispettive economie – chiedono una rapida revisione delle politiche di austerità. Inoltre, la Germania continua a rifiutare il ruolo di supremazia che di fatto negli ultimi anni ha assunto a livello continentale: ai fini del mantenimento dell’euro, considera necessaria la ricomposizione della spaccatura tra paesi indebitati e non.

Lungi dall’essere il risultato di un’operazione egemonica diretta da Berlino e Francoforte, la prevalenza della visione tedesca è dovuta alla capacità oggettiva della Germania di resistere alla crisi, e all’incapacità degli altri partner europei di avanzare alternative convincenti. Berlino, in effetti, ha dubitato a lungo sul valore aggiunto dell’euro per la propria economia: è stata per prima la Grecia – e poi di rimando gli stati contagiati dalla crisi del debito – a pagare il prezzo di questa esitazione durante la fase iniziale, quando con interventi più decisi probabilmente gli effetti della congiuntura negativa e della tempesta finanziaria sarebbero stati meno profondi.

La stessa decisione definitiva sulla permanenza della Grecia nell’unione monetaria è stata presa solo nell’agosto del 2012: in precedenza, il sacrificio di Atene era considerato da Berlino ancora un’opzione praticabile – per il timore che i governi ellenici non fossero in grado di rispettare il calendario di riforme concordato. Tuttavia, compiuta una tale mossa, le aperture da parte tedesca – a cominciare dal via libera all’intervento diretto della BCE nei confronti dei paesi minacciati dal crollo dei mercati – non sono mancate.

La politica europea della Germania ha però sofferto questo doppio passo: tanto più che se i risultati economici casalinghi ne costituiscono indubbiamente un punto di forza, dal punto di vista politico la conseguenza principale è stata quella di isolare Berlino sulla scena continentale come da decenni non accadeva. La Francia, tradizionale partner europeo tedesco, ha abbandonato la collaborazione diretta con l’altra sponda del Reno dopo le elezioni presidenziali dello scorso anno (mandando all’aria il duetto soprannominato Merkozy): il nuovo inquilino dell’Eliseo, François Hollande, si era fatto eleggere col preciso intento di spezzare il “direttorio conservatore che governava l’Europa”.

Parigi, coi bilanci in rosso e ormai distaccata dal treno dell’economia tedesca, ha deciso di privilegiare l’accordo con le capitali mediterranee, per ottenere nel breve periodo dilazioni nel rispetto dei parametri di bilancio decisi a Bruxelles, e per compattare nel medio periodo un fronte di paesi concorde nel rinegoziare tutta la politica economica europea. La Germania, se si esclude la compagnia fedele degli stati allineati (Paesi Bassi, Austria, Finlandia), ha finito per ritrovarsi in una posizione ben scomoda.

La collaborazione ottenuta al momento dell’approvazione del bilancio UE con il Regno Unito non ha avuto seguito, dato che Londra preferisce immischiarsi il meno possibile con gli affari comunitari – e non certo nella direzione auspicata da Berlino. Il conseguente arroccamento solitario, verificatosi nei Consigli Europei di fine anno, è stato apprezzato in patria, ma ha consentito alla Francia di sfilarsi dall’assumere impegni precisi rispetto al calendario riformatore (unione politica) che la Germania auspicava.

Il diverso ordine delle priorità tra le due sponde del Reno sta impedendo la rinascita dell’unico asse che avrebbe la forza per sbloccare lo stallo delle istituzioni comunitarie – considerato da molti come una delle cause principali dell’accanimento della crisi sull’Europa. Hollande infatti ritiene che la solidarietà finanziaria debba precedere qualsiasi tentativo di unione politica – su cui la sinistra francese resta fortemente dubbiosa. Al contrario, Merkel (insieme all’opposizione socialdemocratica) è convinta che i paesi solidi come la Germania potranno garantire ulteriori impegni finanziari solo dopo la creazione di nuove istituzioni democratiche europee, che ne assicurino il controllo e la legittimità e che siano capaci di smorzare il crescente risentimento antitedesco.

L’attuale mancanza di un accordo non solo riduce le ispirazioni riformatrici dell’UE, ma indebolisce la posizione della Cancelliera proprio nei mesi precedenti al voto. La sopravvivenza dell’euro nelle sue attuali forme, infatti, è tutt’altro che garantita; quali risultati concreti e duraturi potrebbe offrire Angela Merkel a chi la accusasse di avere finora sprecato il denaro tedesco? È al momento Berlino, dunque, che si trova nell’obbligo di muovere dei passi verso Parigi per spezzare il proprio isolamento; come detto, la Germania non ha alcuna volontà di dirigere da sola l’Unione. Il nuovo menu di riforme proposto da Merkel, che vorrebbe annunciarlo in giugno, è perciò fortemente caratterizzato da misure finanziarie: armonizzazione dei meccanismi di intervento sulle banche, loro ricapitalizzazione diretta attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilizzazione (MES), autorità europea di risoluzione delle crisi bancarie.

Non è per niente certo che la Francia accetterà una tale offerta: già l’autorità europea comporterebbe una riforma dei Trattati che Hollande non vedrebbe di buon occhio – a Parigi ancora è vivido il ricordo del referendum con cui l’elettorato nel 2005 rifiutò la “Costituzione europea”. È probabile che l’Eliseo voglia mettere sul tavolo anche un ammorbidimento più immediato delle regole di bilancio, che renderebbe più facile al governo francese varare in casa una serie di tagli ritenuti non più rinviabili.

Se Angela Merkel acconsentisse, potrebbe esporsi alle critiche degli euroscettici tedeschi e perdere voti decisivi in settembre. Se al contrario si irrigidisse, potrebbe compromettere la possibilità di coinvolgere il grosso dei paesi dell’UE sul programma delle riforme istituzionali europee. Dal sottile equilibrio tra concessioni e risultati in questo ambito dipenderà una grossa parte delle chance di rielezione della Cancelliera tedesca.