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Pakistan, democrazia coraggiosa

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Le elezioni dell’11 maggio potrebbero rappresentare una svolta non solo per il Pakistan, ma per un più ampio scacchiere regionale. Potrebbero innescare una serie di reazioni che vanno ad investire il futuro dell’Afghanistan in vista del ritiro delle truppe della NATO, i rapporti tra Islamabad e Nuova Delhi, il ruolo di Pechino e finanche la strategia di fondo della Casa Bianca. Washington, in particolare, sembra ora chiamata a prendere atto di una sorta di “cambiamento di natura” della gestione del potere in un Paese-cardine per il raggiungimento dei suoi obiettivi di fondo: lotta al terrorismo, contenimento della Cina, difesa e diffusione in Asia della democrazia e del rispetto dei diritti umani come mezzo di consolidamento delle alleanze, bilanciamento di forze nell’area del Pacifico.

Le elezioni che hanno riportato al potere Nawaz Sharif, quattordici anni dopo la sua destituzione ad opera del colpo di stato ordito dal generale Pervez Musharraf, sono state osteggiate nel modo più violento dai gruppi terroristici pachistani, di ispirazione separatista o fondamentalista. Malgrado siano state insanguinate, durante tutta la campagna elettorale e lo stesso giorno del voto, da attentati che hanno provocato centinaia di vittime, sono state un indubbio successo. L‘opinione pubblica ha mostrato una maturità e volontà di cambiamento che pochi avevano intuito e previsto. Malgrado i pericoli e le minacce, l’affluenza è stata del 60%, molto al di sopra del 48% di cinque anni fa. La gente ha mostrato di credere alla democrazia di tipo parlamentare: la democrazia coraggiosa, l’ha definita qualcuno, che suona come una sfida tanto ai militari quanto agli estremisti religiosi. Il partito al governo, il Partito del popolo pakistano (PPP) che fu dei Bhutto ed ora deve accontentarsi della pallida figura del presidente Asif Ali Zardari, ha ottenuto solo una trentina di seggi in parlamento (dove se ne assegnano 272 oltre ai 70 riservati a donne e minoranze). Il suo alleato nel passato quinquennio, la Lega Awami, è stato praticamente spazzato via.

Sharif, con i 125 seggi conquistati al Parlamento nazionale dalla sua Lega musulmana (PML-N) e con una maggioranza chiarissima nel Punjab (la regione più popolosa del paese), non dovrebbe incontrare difficoltà a formare un nuovo governo. Gli basterà l’appoggio di un manipolo di indipendenti e di partiti minori (come i fratelli Sherazi di Thatta o il Jamiat Ulema-i-Islam Fazi) mentre resta incerta, seppure non determinante, la posizione che prenderà il terzo partito per forza numerica (dopo il PML-N e il PPP), cioè il Movimento per la giustizia, guidato da Imran Khan, l’ex-campione di cricket. Sharif e Imran Khan si sono combattuti aspramente prima del voto. Tuttavia le loro posizioni su alcuni temi centrali, come la lotta alla corruzione, la necessità di trovare uno sbocco alla devastante conflittualità interna, le critiche agli Stati Uniti, troppo indifferenti al rispetto della sovranità pachistana, non sono inconciliabili. È possibile che si accordino, sebbene l’ipotesi più probabile è che Imran Khan scelga di restare all’opposizione, ruolo in cui è più facile guadagnare consensi specie per chi come lui non è scevro da tendenze populiste.

Col PPP condannato dalla sua incapacità di uscire dalle sacche della immobilità, della corruzione, della debolezza nei confronti delle forze armate e dei servizi segreti militari, la migliore “soluzione istituzionale” sarebbe una divisione dei compiti tra Sharif e Imran Khan, anche nella prospettiva di un avvicendamento al potere qualora tra cinque anni la legislatura appena iniziata si concludesse senza colpi di mano autoritari. In ogni caso le elezioni hanno dimostrato che il Pakistan ha tutte le potenzialità per essere un Paese musulmano moderato, e ciò rappresenta un dato che nessun partner estero potrà da oggi ignorare.

Gli Stati Uniti, naturalmente, sono i primi ad essere chiamati in causa. Il presidente Barack Obama si è subito congratulato con Sharif, il quale si è affrettato a dichiarare che è sua intenzione mantenere buoni rapporti con Washington. Si tratta di una posizione in chiaro contrasto con una campagna elettorale svoltasi tutta all’insegna dell’anti-americanismo, ma che rientra nella logica del fisiologico differenziale tra slogan propagandistici e gestione del reale. L’amicizia degli Stati Uniti, specie se serve a garantire i finanziamenti giunti a pioggia nel decennio scorso e un appoggio quando si dovranno negoziare prestiti col FMI, non è cosa da sottovalutare. Ma non è detto che Sharif sia disponibile a sopportare quanto ha sopportato – in termini di riduzione della sovranità – il governo a guida PPP. Proprio in concomitanza con le elezioni l’Alta Corte di Peshawar decretava che le operazioni dei droni della CIA sul territorio pachistano sono illegali, chiedeva al governo di “usare la forza se necessario” per impedirle, ordinava che la questione venisse sollevata in sede di Coniglio di sicurezza dell’ONU (di cui attualmente il Paese è membro non permanente). D’altra parte Sharif affermava che “i droni sono una sfida alla nostra sovranità; rappresentano un problema grave che va ben compreso”.

Il messaggio è difficilmente equivocabile, specie se a Islamabad si insedierà un governo stabile e sicuro della sua forza interna. Obama non può illudersi che possa bastare per accontentare il nuovo premier pachistano la promessa fatta col discorso sullo Stato dell’unione, nel quale aveva parlato di maggiore trasparenza e attenzione alla legalità nell’uso dei droni, ma aveva anche ribadito che non si può rinunciare a colpire i terroristi, dovunque si trovino. La strategia militare americana, che in base allo schema del Pivot to Asia è chiaramente orientata a privilegiare il Pacifico, sembra inoltre puntare sempre più sui droni di nuova generazione, con raggio operativo di migliaia di chilometri: è di questi giorni il test sull’X-47B, aereo senza pilota invisibile ai radar, che dovrebbe operare dalle portaerei. Per proseguire lungo questa strada potrebbe a Washington sorgere la tentazione di affidarsi ai militari nel quadrante pakistano, non per spingerli a colpi di mano “all’antica” ma quantomeno per esercitare pressioni su Sharif, il quale peraltro sostiene – con poca verosimiglianza – di non avere mai avuto e di non avere oggi problemi con lo Stato maggiore. Però gli svantaggi per gli Stati Uniti sarebbero evidenti: si rischierebbe di fare deragliare un’altra volta il processo democratico, e inoltre di regalare il Pakistan alla Cina. Eventualità, questa, che Pechino non mancherebbe di sfruttare, dato che appare sempre in agguato: è del 17 maggio la notizia che il Pakistan ha scelto il sistema cinese di navigazione satellitare Beidou, alternativa al GPS americano, né è casuale che il Pakistan sia appena stato la meta della prima missione all’estero del nuovo primo ministro cinese Li Keqiang (insieme all’India).

A causa di un eventuale passo falso di Washington, cadrebbe inoltre la speranza di un riavvicinamento tra i grandi nemici, India e Pakistan. Uno sviluppo, questo, che per Obama potrebbe costituire invece una acquisizione di valore strategico, se ben gestita. La vittoria di Sharif apre in effetti grandi prospettive al riguardo. Praticamente il primo atto politico di Sharif dopo le elezioni è stata una “lunga chiacchierata telefonica” con il premier indiano Manmohan Singh, a cui sono seguiti reciproci inviti. Pochi i dubbi che il leader del PML-N voglia resuscitare la sua politica di apertura all’India boicottata dai militari con “l’incidente di Kargil”, che fu nel 1999 il passo precedente al colpo di stato di Musharraf. Ragioni economiche prima ancora che considerazioni politico-strategiche gli impongono tale scelta. Ma per muoversi su questa strada ha bisogno del pieno appoggio dell’alleato americano, del sostegno di un’opinione pubblica abituata all’ostilità con l’India e soprattutto di una positiva risposta da parte di Nuova Delhi (dove Singh appare ormai un perdente e quindi non è il migliore interlocutore).

La difficile operazione di armonizzare questi tre fattori renderebbe possibile a Sharif aprire un nuovo capitolo anche sul fronte dei rapporti con partiti e gruppi religiosi, isolando gli estremisti che operano sul lato afghano non meno che su quello indiano (Kashmir). Non tutti i conflitti si risolverebbero, non tutte le forze oscure che operano in Pakistan batterebbero in ritirata, né le fazioni in lotta in Afghanistan (comprese quelle basate in Pakistan) troverebbero per incanto un accordo, ma il quadro regionale sarebbe meno fosco di quanto non appaia oggi.