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Il dibattito sull’aborto in Turchia: una nuova fase di culture war

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Nei mesi scorsi il dibattito politico e sociale in Turchia è tornato a concentrarsi sulle questioni etiche. Questa volta non si tratta del velo, ma di un tema di discussione inedito per il paese: l’interruzione volontaria di gravidanza. La controversia è stata scatenata da una dichiarazione rilasciata il 25 maggio dal primo ministro Erdogan, che ha affermato: “considero l’aborto un omicidio. Nessuno dovrebbe permetterlo. Puoi uccidere un bambino nel grembo della madre o ucciderlo dopo la nascita. Non c’è nessuna differenza”. Ha poi aggiunto che “ogni aborto è un Uluderi” – con un riferimento al recente attacco aereo turco a Uluderi, nelle zone curde, che ha causato decine di vittime civili (per cui il governo ha offerto un risarcimento ma non scuse formali). Pochi giorni dopo Erdogan è ritornato sull’argomento, con l’annuncio della prossima presentazione di un disegno di legge volto a vietare l’aborto, confermato da dichiarazioni  di altri membri del governo.

Queste prese di posizione hanno provocato notevole costernazione in Turchia, dove dal 1983 – in linea con l’impostazione laica delle istituzioni del paese – è consentito l’aborto entro la decima settimana di gravidanza (e, per ragioni mediche, anche successivamente). Nei maggiori centri del paese hanno avuto luogo manifestazioni di protesta con la partecipazione di migliaia di donne: le tesi contrarie al disegno di legge sono che la legge sarebbe un’indebita interferenza dello stato nel diritto di scelta delle donne; e che la criminalizzazione dell’aborto farebbe salire il numero delle interruzioni di gravidanza clandestine.

In seguito alle proteste interne ed internazionali, il governo ha quindi deciso di mettere da parte (almeno per il momento) il progetto. Una dinamica che a molti ha ricordato quanto accaduto nel 2004, quando il primo ministro propose di criminalizzare l’adulterio, per poi ritrattare dopo le proteste.

Ci sono varie possibili motivazioni dietro questa mossa di Erdogan, con la scelta di sollevare una questione controversa senza però arrivare fino a uno scontro aperto con vaste componenti dell’opinione pubblica.

Una è legata all’attacco di Uluderi a cui abbiamo già accennato, in cui l’aviazione turca ha ucciso oltre trenta civili, scambiandoli per guerriglieri curdi. Secondo alcuni, la proposta di vietare l’aborto, e lo specifico accostamento proprio alla strage di Uluderi, sarebbe stato un accorgimento tattico del governo turco per sviare l’attenzione interna e internazionale dal grave incidente.

Vi è poi una spiegazione identitaria, poiché l’Islam ha in generale una visione negativa dell’aborto. Sebbene non esistano norme coraniche che menzionino la questione in modo specifico, la maggior parte dei giurisperiti afferma che l’aborto dovrebbe essere generalmente vietato, e consentito per ragioni eccezionali solo entro 120 giorni dal concepimento (momento in cui l’anima entrerebbe nel nascituro). La Turchia, tuttavia – con altri paesi islamici di tradizione laica, come la Tunisia – ha da tre decenni una legislazione relativamente permissiva sul tema. La proposta governativa sarebbe quindi un altro tassello dell’adeguamento della legislazione e della società turche ad un modello più “islamico”, in linea con l’orientamento generale dell’AKP.

Va poi notato che le attuali norme sull’aborto sono state stabilite da un governo che era emanazione di una giunta militare (al potere dopo il golpe del 1980). Il governo Erdogan non ha fatto mistero di considerare non democratici gli interventi legislativi promossi dall’esercito, e di volerli smantellare. È stato così già per le modifiche alla Costituzione (introdotta a sua tempo proprio dalla giunta) e per la recente riforma del sistema educativo. La mossa del governo si può quindi leggere nel contesto del tentativo di liberare il paese dall’influenza dell’esercito, tradizionale – e spesso ingombrante – custode della laicità dello stato. Infine, vi è una probabile considerazione demografica, avvalorata anche da alcune dichiarazioni di Erdogan contro il taglio cesareo, che secondo il primo ministro impedirebbe alle donne di avere più di due figli, con la conseguenza di limitare la crescita demografica del paese. L’attuale governo turco fa molto affidamento infatti sull’arma demografica, sia per l’ascesa della Turchia tra le prime dieci potenze economiche mondiali (che si vorrebbe realizzare per il centenario della Repubblica, nel 2023), sia per equilibrare la crescita della minoranza curda. Le aree sudorientali a maggioranza curda hanno infatti oggi un tasso di crescita più che doppio rispetto alle aree centro-occidentali a maggioranza turca: una dinamica che sul lungo periodo potrebbe spostare gli equilibri di potere nel paese.

Quali che siano le motivazioni specifiche, la sensazione è che il governo, dopo la terza vittoria elettorale consecutiva, voglia dare sempre più enfasi alle questioni culturali, non tanto nella tradizionale versione islamista, quanto con temi e modalità linguistiche che ricordano molto da vicino quelle delle destre religiose occidentali, in particolare negli Stati Uniti. È stato così con la promozione di istruzione privata e homeschooling (presentati come libera scelta genitoriale), e ora con l’aborto (tematizzato come omicidio). Mentre la prima legislatura di governo dell’AKP ha avuto come tema dominante le riforme per la rincorsa alla membership UE e la seconda è stata caratterizzata soprattutto da una disinvolta politica estera, ora potrebbe essere la volta delle culture wars in versione turca.