international analysis and commentary

La Spagna delle comunità autonome in crisi

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Le manifestazioni di piazza, convocate dai sindacati come dai cosiddetti indignados, sono l’espressione del crescente malessere sociale che si vive nella Spagna dell’austerità. Di fronte alle pesanti misure di risparmio sulla spesa (in materia di stipendi dei dipendenti pubblici, sanità e istruzione) era difficile aspettarsi qualcosa di diverso: tutto sommato, le proteste rientrano nella normalità della dialettica sociale, pur mettendo certamente sotto pressione il governo conservatore di Mariano Rajoy.

Ciò che rischia di uscire dagli schemi consolidati è però soprattutto la complessa vicenda delle relazioni fra lo stato centrale e le comunità autonome, che godono, nel sistema spagnolo, di uno status quasi analogo ai Länder tedeschi. Non è più solo un’ipotesi remota che la crisi economica e finanziaria porti con sé l’esplosione delle tensioni irrisolte – ma sino ad ora controllate – fra centro e periferia.

Le spinte centrifughe e quelle centripete si alternano e confondono in uno scenario che, ogni giorno che passa, si fa sempre più difficile da governare. Da un lato, sembrano prendere forza i progetti a vario titolo separatisti, in particolare nei Paesi Baschi e in Catalogna, che muovono dalla considerazione che sia “la Spagna” ad essere in crisi e ad aver contagiato le zone maggiormente virtuose ed economicamente prospere.

Dall’altro, il regime di autonomia regionale istituito dalla Costituzione democratica del 1978 è visto da più parti – e anche dal l’Unione Europea – come corresponsabile di una spesa pubblica fuori controllo, molto spesso da imputarsi a onerose scelte di carattere puramente clientelare. Dibattendosi tra un opportunistico “si salvi chi può” pronunciato dalle regioni e un arcigno “la ricreazione è finita” da parte del governo, il paese iberico rischia seriamente di spezzarsi.

Se anche dovesse uscire indenne da questa prolungata fase di recessione e crisi, la Spagna dovrà in ogni caso guardarsi allo specchio. E capire come rifondare il patto di convivenza risalente all’uscita ordinata dalla dittatura franchista – la Transizione del periodo 1975-78. Perché una cosa è certa: anche al di là delle opinioni che emergono nel dibattito pubblico sul modello di stato, le misure che il governo di Rajoy sta assumendo hanno già alterato i rapporti fra il centro e le regioni. Le comunidades autonomas, infatti, sono state messe nelle condizioni di dover chiedere aiuto allo stato per riuscire a finanziarsi, non potendolo più fare sui mercati. In cambio della concessione delle risorse necessarie a pagare dipendenti e creditori d’ogni genere, il governo centrale ha preteso di mettere sotto controllo le finanze regionali, che di fatto verranno gestite direttamente da Madrid:qualcosa di impensabile anche solo pochi mesi fa.

Lo schema assomiglia a quello in vigore nell’Unione Europea, con le comunità autonome al posto degli stati nazionali e i funzionari dell’esecutivo spagnolo nel ruolo della troika. Risorse in cambio di controllo: come i piani di salvataggio predisposti dalle autorità di Bruxelles, così funzionano le regole del Fondo de LiquidezAutonómico (FLA), cioè il fondo “salva-regioni” iberico. E in un caso come nell’altro, il prezzo che i “salvati” devono pagare consiste nientemeno che nell’autonomia, nel senso proprio della facoltà di decisione sul proprio destino.Un prezzo che non tutte le regioni spagnole potrebbero essere disposte a pagare soprattutto perché farlo potrebbe significare dare legittimità alle correnti di pensiero che spingono per un nuovo accentramento, non necessariamente di ascendenza vetero-franchista, ma che inevitabilmente richiamano la buia fase pre-democratica. A cosa servono infatti le autonomie regionali se soltanto lo stato si mostra in grado di cavare d’impiccio i cittadini nei momenti di difficoltà? Non riuscire a rispondere ad una domanda di questo genere significherebbe mettere in discussione radicalmente l’attuale ordinamento democratico spagnolo; non solo, farebbe perdere peso e ruolo alle potenti élite politiche regionali, in particolar modo quelle dei partiti autonomisti. Ragion per la quale è impensabile che i poteri locali si arrendano facilmente di fronte all’intervento – per quanto benefico per le casse regionali – dello stato centrale.

Il discorso vale in modo particolare per le comunidades che storicamente sono portatrici di istanze autonomistiche, Catalogna in primis. La Generalitat è governata dalla federazione nazionalista Convergència i Unió (CiU), che ha tra le proprie rivendicazioni più importanti un nuovo regime di autonomia fiscale, in virtù del quale diminuiscano ulteriormente i rapporti con lo stato: l’opposto di quanto molto probabilmente accadrà. La regione di Barcellona, infatti, è la maggiormente indebitata del paese e non ha praticamente scelta: o accede al fondo di liquidità predisposto dall’amministrazione centrale o rischia seriamente il default.

Alla crisi di credibilità che inevitabilmente li investirà, i nazionalisti catalani potranno reagire appellandosi alle proverbiali cause di forza maggiore – magari attribuendo la responsabilità del debito regionale alla precedente compagine di governo, una coalizione delle sinistre – oppure ricorrendo ad un vittimismo che preluda ad una fase di conflittualità politica più accesa con Madrid.

I segnali in tal senso non mancano. Il maggiore dei due partiti che compongono la federazione CiU, vale a dire il laico e centrista ConvergènciaDemocràtica de Catalunya, ha ufficialmente assunto all’ultimo congresso tra i propri obiettivi strategici la creazione di uno “stato proprio” per la Catalogna. E a spingere per una rottura costituzionale sono anche gli indipendentisti di EsquerraRepublicana de Catalunya, oggi minoritari, ma in posizione tale da poter impensierire CiU sul suo stesso terreno, costringendola dunque a radicalizzare la propria posizione. Offrire in pasto all’elettorato nazionalista – cioè a quella classe media che sta vedendo pericolosamente messo in discussione il proprio status – il capro espiatorio dello stato centrale potrebbe essere l’ultima risorsa a disposizione dei gruppi dirigenti catalani alla disperata ricerca di appigli per non finire travolti anche loro dalla crisi “spagnola”.

Tanto più che i Paesi Baschi, l’altra comunità storicamente anti-centralista, offrono loro il migliore degli esempi. La regione di Bilbao e San Sebastián, infatti, è una delle poche, se non l’unica, a potersi permettere di ignorare l’offerta del governo di Madrid. I suoi conti sono in ordine, e ciò viene attribuito al particolare sistema di autonomia fiscale di cui gode, risalente agli antichissimi fueros di tradizione medievale, soppressi dal franchismo e ripristinati dalla Costituzione democratica. In breve, regole per le quali le tasse restano sul territorio e i trasferimenti allo stato sono minimi.

Che davvero lo si debba solo a queste norme  o anche ad altri fattori (un forte tessuto economico, buona amministrazione), ciò che importa è che i paesi Baschi indicano ai nazionalisti catalani la via da seguire: meno rapporti si hanno con l’amministrazione centrale e meglio è. Fino al punto di immaginare la vera e propria indipendenza: un rimedio alla crisi economica che, a prescindere dalla sua efficacia, ha il vantaggio di offrire una prospettiva simbolicamente “calda” da contrapporre alla logica “fredda” dei tagli di bilancio. Un invito a nozze per i demagoghi.