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L’effetto convention sulla popolarità dei candidati alla presidenza

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Nonostante le convention dei due grandi partiti americani abbiano perso da quattro decenni molta rilevanza politica, la forza del rito rimane. Il discorso di accettazione della candidatura è visto da decine di milioni di elettori, la copertura mediatica è totale, e poco prima o durante le convention viene indicato il nome del candidato alla vicepresidenza. Questi eventi di partito continuano dunque ad avere un impatto significativo sull’elettorato ed è per questo che è ancora utile il concetto di “effetto convention”: è  il saldo, solitamente positivo, di cui beneficiano i candidati alla Casa Bianca nel confronto tra i sondaggi effettuati prima e dopo l’evento. Esistono diversi modi per misurarlo, i più noti dei quali  sono quello utilizzato dall’istituto Gallup e quello messo a punto da Campbell, Cherry e Wink nel 1992. I due metodi si differenziano nel numero di giorni da prendere in considerazione prima e dopo l’evento e i rilevamenti statistici da includere nel conteggio. Sebbene le cifre percentuali divergano, la tendenza espressa è la stessa: dal 1964 al 2008, dopo le rispettive convention, tutti i candidati hanno ottenuto un incremento dei consensi. Le uniche eccezioni sono rappresentate da George McGovern nel 1972 e John Kerry nel 2004: per il primo il saldo appare praticamente nullo, mentre Kerry sarebbe addirittura calato nei sondaggi.

Nella storia politica americana recente, il più significativo effetto convention è quello di cui beneficiò Bill Clinton nel 1992. Il candidato democratico guadagnò ben 16 punti percentuali e arrivò ad appaiare nei sondaggi il presidente uscente George H.W. Bush. Tale risultato fu però sovradimensionato dal fatto che, proprio nei giorni in cui si svolgeva la convention democratica di New York, il candidato indipendente Ross Perot annunciò il suo ritiro dalla competizione presidenziale, salvo poi decidere di rientrare in corsa a settembre inoltrato. La sorprendente decisione del miliardario texano spiazzò i numerosi sostenitori e molti di questi si orientarono sull’allora governatore dell’Arkansas, che proprio in quei giorni veniva designato ufficialmente quale candidato democratico alla Casa Bianca. Il presidente Bush non potè godere di un simile “rimbalzo” nei sondaggi poiché la conferenza repubblicana si riunì oltre un mese dopo e quindi non coincise con il momentaneo ritiro di Perot.

Il calo di popolarità subito da John Kerry dopo la convention del 2004 è invece attribuibile al fatto che proprio nei giorni della conferenza democratica di Boston il gruppo indipendente filo-repubblicano degli Swift Boat Veterans for Truth iniziò la sua offensiva mediatica, tesa a mettere in dubbio la legittimità delle medaglie al valore conquistate da Kerry in Vietnam. Questi attacchi (poi rivelatisi calunniosi) furono veicolati attraverso spot televisivi e catene di e-mail, danneggiando il candidato democratico e costringendolo a difendersi dalle accuse. Kerry perse  quindi l’ccasione di approffitare  della copertura mediatica della convention.

In realtà, ogni convention fa storia a sè e presenta caratteristiche specifiche per quanto riguarda l’effetto sui sondaggi. Per esempio, le conferenze democratiche del 1968 e del 1972 furono veri e propri disastri, tra contestazioni violente, interventi della polizia e profonde divisioni e. E questo fu certamente corresponsabile del mancato effetto convention di quelle campagne elettorali.

Un’analisi accurata dei dati rivela come la rilevanza dell’effetto convention sia ascrivibile a tre variabili principali. La prima è che i candidati che prima dell’evento  conducono nei sondaggi tendono ad avere un “effetto convention” minore, mentre coloro che inseguono beneficiano solitamente di incrementi maggiori. La seconda è connessa alla prima ed è relativa al “riallineamento” delle preferenze della base elettorale dei partiti: i candidati che, durante le primarie, sono invisi a parte dei sostenitori del partito di appartenenza spesso riescono a ottenere un significativo effetto convention, perché è solo in questo momento della campagna che il vincitore delle primarie diventa ufficialmente il candidato unico e quindi definitivamente “accettato” da tutti i simpatizzanti. Un esempio in questo senso è rappresentato da Barry Goldwater, il quale nel 1964 ebbe un notevole effetto convention soprattutto perché, prima della riunione di partito, era valutato ben 16 punti al di sotto del potenziale elettorale repubblicano. Questo consolida l’idea che la convention sia ancora un rituale dalla forte valenza simbolica per l’elettore e che risulti più utile ai candidati più deboli, agli outsider e a quelli usciti da lunghe e incerte elezioni primarie.

Una terza variabile, oggi meno rilevante, potrebbe essere legata al calendario politico dell’anno elettorale. È prassi che sia il partito al governo a organizzare per ultimo la propria convention. Tuttavia ciò non sembra aver grande rilevanza: la lunga stagione delle primarie permette ormai anche al candidato di opposizione di essere conosciuto e valutato, e in tal modo si è inoltre ridotto l’intervallo che intercorre tra le convention dei due partiti –  una settimana appena: è pertanto inesatto nelle campagne elettorali recenti attribuire un maggior impatto a chi organizza per primo la propria convention.

In ogni caso, sappiamo che l’effetto convention non ha alcun valore predittivo del risultato elettorale. Nell’agosto del 1980 Jimmy Carter beneficiò di un imponente effetto convention ma appena tre mesi dopo venne sonoramente sconfitto da Reagan. Quattro anni dopo, Walter Mondale, pur avendo guadagnato nove punti nei sondaggi subito dopo la convention democratica, venne umiliato e finì sopravanzato dal presidente uscente in ben 50 stati. Ancora nel 2008, subito dopo la convention repubblicana di Minneapolis, McCain sembrò affiancare Obama nei sondaggi ma poi andò incontro a una netta sconfitta.