Prima ancora della fulminea ascesa dell’ISIS, il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) ha affrontato sfide sia interne che esterne che hanno eroso in maniera significativa l’unità e l’efficacia dell’organizzazione. Ora, un pericolo nuovo e più inquietante minaccia il GCC. L’ISIS rappresenta non tanto una nuova minaccia, quanto piuttosto l’apoteosi di un percorso, l’aumento e la diffusione dell’islamismo jihadista. È un pericolo che ha preso di mira i confini ma anche direttamente le popolazioni della regione. L’ISIS ha dichiarato di voler soppiantare tutti i governi e le organizzazioni del mondo islamico per diventare il solo leader dei musulmani. Questo programma può sembrare del tutto illusorio, ma il fascino seducente che esercita su molti musulmani, soprattutto i giovani, rappresenta la più grave minaccia per il GCC.
Anche se diversi Paesi dell’organizzazione regionale partecipano alla coalizione americana in Siria contro l’ISIS, persiste una spaccatura tra i governi del Golfo che continua ad avere gravi conseguenze. Il modo in cui Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein stanno contribuendo alla lotta contro l’ISIS riflette le sfumature della loro politica interna e le differenze delle politiche estere, solo apparentemente allineate. Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita rappresentano posizioni ideologiche disparate circa l’islam politico e concorrenti visioni sugli assetti regionali (gli altri membri – Kuwait, Bahrein e Oman tendono ad assumere un ruolo di basso profilo). L’ISIS può essere un collante che tiene temporaneamente insieme il GCC, ma rimangono gravi spaccature. Arabia Saudita e gli Emirati accusano Doha di non rispettare l’accordo di Riyadh, un patto di sicurezza elaborato dai governi del Consiglio nel 2013 che verte sulla non interferenza, diretta o indiretta, negli affari interni di un altro Paese-membro, compresa ogni forma di sostegno a individui e organizzazioni straniere che possano minacciare la sicurezza e la stabilità interna.
Il Qatar ha cercato fin dalla fine degli anni Ottanta di sfuggire all’orbita politica saudita perseguendo con determinazione una politica estera indipendente. I sauditi, da parte loro, non hanno mai accettato l’intraprendenza di quel piccolo paese, che considerano poco più che un’appendice del proprio Stato. In effetti, la crisi attuale del GCC deriva dalla competizione per l’influenza su una vasta area geografica, che si estende dall’Iraq al Marocco. Tuttavia, anche se uno Stato del Golfo dovesse uscire vittorioso a discapito di un altro, sarebbe comunque una vittoria effimera, poiché essi non sono potenze di dimensioni tali da poter creare vere sfere di influenza stabili in cui poter espandere i propri interessi.
Per parte sua, l’ISIS, con la proclamazione del Califfato e la correlata pretesa che i musulmani di tutto il mondo debbano giurare fedeltà al nuovo Califfo piuttosto che a qualsiasi altro governante, ha lanciato una sfida esistenziale agli stessi Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo perché ne ha rigettato la legittimità. Sebbene il numero di coloro disposti ad accettare un tale diktat sia molto esiguo in quasi tutti gli Stati della regione, esso costituisce la base per un potente nucleo di fanatici che lavorano apertamente o silenziosamente per destabilizzare i governi esistenti. Consapevole dell’immensa religiosità dei credenti, nei calcoli dell’ISIS il controllo dello spazio mentale è ancora più critico di quello fisico. Due aspetti vanno tenuti in considerazione: la maggior parte della popolazione nei paesi del Golfo è molto giovane, e diffusione del wahhabismo ha fatto sì che l’educazione ricevuta sia tale da renderli suscettibili ad argomenti teologici. Finora la stabilità interna è stata assicurata solo grazie ai generosi sussidi per la sicurezza sociale elargiti dai governi in combinazione con un rigoroso Stato di polizia.
L’influenza religiosa sul sistema educativo è in continua metamorfosi, specialmente nei contenuti: questi non riflettono più ideali relativamente “moderati”, ma si concentrano sull’obiettivo di legittimare l’esclusione e l’odio per l’altro. Nel corso degli ultimi tre decenni è stato dato un grande impulso al wahhabismo in risposta alla presa del potere di Ruhollah Khomeini in Iran nel 1979 e al jihad del 1980 in Afghanistan contro l’Unione Sovietica, durante i quali diversi milioni di credenti sono diventati ricettivi ad insegnamenti e a mentalità simili a quella dell’ISIS. Ed è proprio su costoro che l’ISIS insiste nel proclamarsi l’unica autorità legittima per i musulmani.
Tale situazione è particolarmente delicata per l’Arabia Saudita, che fonda la propria legittimità storica sulla stessa ideologia dell’ISIS, il wahhabismo, e sul ruolo unico che le conferisce la custodia delle due città sante dell’Islam, Mecca e Medina. Riyadh ritiene che la minaccia terroristica dell’ISIS sia grave e immediata, avendo ufficialmente definito il gruppo come un’organizzazione terroristica – a partire dal febbraio 2014, quando Mohammad bin Nayef ha rimpiazzato il controverso Bandar bin Sultan a capo dell’intelligence, Questi è stato segretario generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale saudita dal 2005 ed è stato coinvolto direttamente nella creazione e nel finanziamento dei gruppi armati in Siria contro Bashar al-Assad. Riyadh teme, tra l’altro, che centinaia di sauditi andati a combattere con l’ISIS possano tornare e prendere a bersaglio il proprio paese. L’ISIS sa però di godere di un buon sostegno proprio in Arabia Saudita, tanto che il gruppo svolge un’attività di proselitismo diretta e campagne di raccolta fondi. Durante l’ultimo pellegrinaggio alla Mecca è stata per questo organizzata una massiccia campagna ideologica condotta dalle più alte cariche religiose del regno, come il gran Mufti Sheikh Abdulaziz al-Sheikh, che nei loro sermoni hanno descritto l’ISIS un’organizzazione blasfema che mette in pericolo l’islam.
Come si vede, dunque, equilibri regionali, stabilità interna e futuro dell’ISIS sono ormai strettamente connessi. È un intreccio ad altissimo rischio per tutti i paesi del Golfo.