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Israele, Hamas e gli arabi moderati: convergere contro il radicalismo islamista

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Nonostante un’ennesima guerra distruttrice nell’estate scorsa, il numero altissimo di vittime (in particolare civili a Gaza), l’immane costo materiale, l’imbarbarirsi del conflitto fra Israele e i palestinesi, le accuse dell’ONU e di diverse ONG all’una e agli altri di crimini di guerra, vi è una possibilità di accordo tra le parti. Un accordo che rifletterebbe il convergere di interessi fra Israele e gli Stati arabi “moderati” nell’opporsi al radicalismo degli islamisti.

In questo ultimo scontro fra Israele e Hamas larga parte degli attori arabi (Arabia Saudita, Emirati, Egitto, Giordania, e la stessa Autorità Palestinese che governa la Cisgiordania) non ha appoggiato Hamas perché essa è figlia dei Fratelli Musulmani. E costoro sono, giustamente o no, percepiti come parte integrante di quel coacervo di movimenti che si rifanno all’estremismo islamista, dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante a Al-Qaeda alla jihad islamica.

Si deve ora ripartire dall’offerta di pace della Lega Araba del 2002, cui Israele non ha mai risposto se non con compunta indifferenza e che l’Arabia Saudita ha confermato di recente in termini più favorevoli alle posizioni di Israele (per esempio circa il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi). Essa contempla il riconoscimento e rapporti normali con Israele, qualora esso si ritiri dai territori occupati nel ’67, accetti uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale e una soluzione concordata della questione dei rifugiati. Da tempo alcuni israeliani preveggenti, firmatari dell’Israeli Peace Initiative, sostengono che cogliere l’offerta di pace della Lega Araba sia nell’interesse di lungo termine di Israele, per almeno cinque buone ragioni.

Anzitutto, il sostegno del mondo arabo darebbe all’ANP, sotto l’ombrello del governo unitario palestinese formato nell’aprile scorso, una forza politica legittimante per stipulare un accordo di pace con Israele, oltre a concorrere alla sua attuazione concreta (per esempio integrando nei paesi arabi molti dei rifugiati palestinesi del ’48 e del ’67).

In secondo luogo, in termini di sicurezza a Israele conviene un’alleanza con gli Stati moderati della regione contro la minaccia islamista; Israele ha bisogno di rompere con un’iniziativa di pace il suo crescente isolamento politico nel mondo, dovuto anche ad un’ostinata, autodistruttiva difesa dello status quo – l’occupazione della Cisgiordania – sotto la pressione dei partiti di destra e del movimento dei coloni.

In terzo luogo, la guerra con Hamas ha dimostrato che il costo della non-pace è enorme e l’illusione che possa perdurare tra Israele e i palestinesi un conflitto “a bassa intensità” e che i palestinesi accettino per l’eternità l’occupazione e la spoliazione dei diritti è appunto un’illusione pericolosa con effetti nefasti per la democrazia e la convivenza fra ebrei ed arabi all’interno stesso di Israele, come dimostrano le violenze scoppiate a Gerusalemme nelle ultime settimane e la ripresa di attentati terroristici contro civili israeliani.

Inoltre, gli abitanti di Gaza, che pur votarono nelle elezioni del 2006 per Hamas che offriva loro un welfare state islamico, o piuttosto contro Al-Fatah, accusata di corruzione e clientelismo, non sono nella loro totalità la stessa cosa di Hamas. Anzi prima dello scoppio della guerra di luglio proprio la forte flessione dei consensi, e il quasi fallimento finanziario, ne avevano indebolito il potere fino ad indurre il movimento all’accordo di riconciliazione con Abu Mazen. Si era così arrivati alla formazione di un governo unitario con il mandato anche di svolgere nuove elezioni e indire forse un referendum popolare: l’esito di questa consultazione, qualora la popolazione palestinese approvasse un accordo di pace basato sulla soluzione “a due Stati”, Hamas stesso sarebbe disposto a riconoscere (pur nell’ostinazione del “rifiuto” ideologico di Israele). Nel frattempo comunque l’ANP di Abu Mazen in forza dell’accordo di riconciliazione sarebbe riconosciuta come unico governo legittimo della Palestina nella sua interezza – Cisgiordania e Gaza; ciò è stato ribadito nell’accordo raggiunto fra Fatah e Hamas il 25 settembre scorso.

Infine, sarebbe nell’interesse di Israele, a fronte di un eventuale disarmo di Hamas e del controllo dei punti di passaggio fra la Striscia, Israele e l’Egitto affidato alla polizia dell’ANP, sotto la supervisione di una forza internazionale, ridurre progressivamente il peso dell’embargo su Gaza, per esempio consentendo l’esportazione di beni dalla Striscia verso Israele e la Cisgiordania e anche l’espatrio di persone, per esempio di studenti che desiderano studiare nelle università cisgiordane. Alla fine, dovrebbe essere garantita la libertà di movimento di beni e persone da e verso Gaza. Questo sarebbe un modo di rafforzare una classe media e imprenditoriale e di dimostrare agli abitanti che vi sono benefici concreti nell’abbandono della violenza e del settarismo ideologico di Hamas, soprattutto se ad esso si unisse da parte di Israele un impegno concreto a congelare gli insediamenti in Cisgiordania e ad accettare uno Stato palestinese degno di questo nome. Quando Ariel Sharon decise nel 2005 un ritiro unilaterale dalla Striscia senza negoziare un accordo di mutua sicurezza con Yasser Arafat, ne scaturì un embrione di Stato che avrebbe potuto essere un inizio di progresso economico e civile, pur con i limiti territoriali di Gaza priva di un porto autonomo e separata dalla Cisgiordania – il porto e un legame fisico fra Gaza e la Cisgiordania erano invero previsti dagli accordi di Oslo del 1993 – , ma finì soffocato dall’estremismo di Hamas da una parte e dal blocco imposto da Israele dall’altro.

Come affermava lo scrittore A.B. Yehoshua (La Stampa, 13 luglio), “ … è importante considerare Hamas come un nemico legittimo, con il quale poter arrivare a un accordo o contro il quale combattere in uno scontro frontale. (…) Fintanto che definiremo Hamas una banda di terroristi (…) non potremo fermare i bombardamenti nel sud di Israele e non potremo negoziare apertamente con il suo governo per raggiungere un accordo che comprenda una supervisione internazionale della rimozione dei missili da parte di Hamas e del blocco della Striscia, l’apertura dei valichi di frontiera e quella di un eventuale corridoio di transito sicuro fra la Striscia e la Cisgiordania.” Un’analisi lucida come questa è ciò di cui ha assoluto bisogno Israele, nell’interesse suo e dell’intera regione.