C’è molto Baltico nel conflitto che è scoppiato nel Donbas ucraino. Anzitutto, sono state la Svezia e la Polonia a mettere in movimento, con il varo della Partnership Orientale nel 2008, la complessa operazione che ha portato il 27 giugno scorso alla firma degli accordi di associazione all’Unione Europea con l’Ucraina (oltre che Georgia e Moldavia).
Il Partenariato per l’Est doveva in effetti avvicinare all’Europa comunitaria quella parte del Continente che ne era rimasta esclusa, perché in qualche modo ancora legata alla Federazione Russa, ed occorre riconoscere che ha servito egregiamente i suoi ideatori. Il confronto con il progetto sarkoziano di Unione Mediterranea, affiorato nello stesso periodo, non potrebbe essere più impietoso: l’UE infatti si sta proiettando verso Est, mentre l’Africa Settentrionale ed il Medio Oriente sono sprofondati nel caos più completo.
Tuttavia, neanche ad Oriente si può sostenere che tutto sia andato veramente secondo le previsioni. Al contrario, la brusca reazione russa all’avanzata della sfera di prosperità europea a ridosso delle proprie frontiere occidentali ha rappresentato un delicato momento di ripresa di contatto dei Baltici con la propria realtà geopolitica.
Estonia e Lettonia, in particolare, si sono risvegliate in prima linea; esattamente come la Finlandia, che con gli svedesi ha iniziato a prendere in considerazione l’ipotesi di regolare con altrettanti memoranda of understanding una forma di cooperazione pratica assai incisiva con l’Alleanza Atlantica.
Il braccio di ferro iniziato in Ucraina sull’allineamento internazionale del Paese ed il suo ordinamento interno ha avuto in sintesi un riverbero importante sui lembi nord-occidentali del cosiddetto Intermarium. Si è quindi delineato un quadro di luci ed ombre. Perché, da un lato, la partita aperta dagli Stati leader della Partnership Orientale ha sensibilmente modificato gli equilibri europei. Mentre, dall’altro, ne ha significativamente diminuito anche la sicurezza complessiva.
Il ruolo decisivo della Germania
Peraltro, i Baltici non hanno fatto tutto da soli. Neanche Polonia e Svezia sarebbero, infatti, riuscite a portare l’Unione Europea ad offrire un accordo di associazione a Stati che la Federazione Russa considera parti essenziali del proprio “Estero Vicino”, se alle loro spalle non vi fosse stato un radicale mutamento della Ostpolitik tedesca.
Se la Germania non avesse almeno temporaneamente rinunciato al progetto di stringere con Mosca una partnership strategica che avrebbe potuto svuotare di significato anche la NATO, non vi sarebbe stato infatti alcun accordo di associazione all’UE per la Georgia, la Moldavia e soprattutto l’Ucraina. Ci si può interrogare sulle ragioni che hanno indotto Berlino a questa “inversione ad U” della propria politica nell’Est Europeo. Ma non è improbabile che vi abbia contribuito il crescente disinteresse dimostrato dall’amministrazione Obama per quel che accade nel nostro continente.
Oggetto di particolare risentimento specialmente in Polonia, come è risultato chiaro dalle frasi assai pittoresche carpite al Ministro degli Esteri Sikorski, questo fattore ha probabilmente suscitato in alcuni ambienti tedeschi l’ambizione a sostituirsi agli Stati Uniti nel ruolo di potenza occidentale di riferimento in quella che ancora nel 2003 Donald Rumsfeld definiva la “Nuova Europa”.
Anche nel caso della Germania, peraltro, la verifica con le realtà sul terreno ha comportato delle delusioni, che sono state direttamente proporzionali alla veemenza con la quale la Cancelliera Merkel ha successivamente insistito sulla necessità di sanzionare con durezza la Federazione Russa.
Al momento che conta, infatti, tanto gli Stati Uniti quanto la Russia hanno chiamato il bluff. Forze politiche locali che vanno considerate vicine a Washington hanno drasticamente ridimensionato le speranze del campione dei tedeschi a Kiev, l’ex pugile Vitaly Klitchko. Quindi, si è registrato il ricorso alla forza da parte di Mosca in Crimea, che ha colto impreparati tanto Berlino quanto i polacchi, gli svedesi ed i governi delle tre Repubbliche Baltiche. Che non si aspettavano la mossa ed hanno quindi deciso di attivare precipitosamente l’Alleanza Atlantica per ottenere rassicurazioni adeguate. La NATO ne ha effettivamente disposte alcune, intensificando le esercitazioni in prossimità del territorio russo, rischierando uomini e mezzi ad Est e da ultimo anche deliberando l’apertura di nuove basi, ben cinque, in Paesi molto vicini alla Federazione Russa, se non addirittura confinanti.
La risposta della NATO ai fatti di Crimea
Tuttavia, al recente vertice dell’Alleanza, svoltosi in Galles tra il 4 ed il 5 settembre scorsi si è fatta grande attenzione a non dischiudere agli ucraini le porte della NATO e a non assumere alcun impegno a difenderli.
La circostanza è stata certamente motivo di grande delusione nelle capitali baltiche, dove evidentemente si contava di ottenere rapidamente un doppio allargamento verso Est di NATO ed UE simile a quello avvenuto nel 2004, malgrado mancassero molti dei presupposti normalmente considerati decisivi per l’accessione di nuovi membri ai due club: in primo luogo, l’assenza di contenziosi tra i candidati ed i loro vicini. Si voleva accrescere la profondità strategica di Paesi che non hanno mai avuto vita facile nel gioco delle grandi potenze, ma così non è stato. La Partnership Orientale, tanto desiderata dai Baltici, è rimasta pertanto, almeno per il momento, un disegno incompiuto, anche se è riuscita ad imprimere una svolta antirussa alla politica estera europea davvero difficilmente immaginabile anche solo un anno fa.
Gli accordi di associazione appena stretti dall’UE con Georgia, Moldavia ed Ucraina hanno però spinto la Russia ad assumere posizioni antagoniste rispetto all’Occidente che non si vedevano dai tempi dell’Unione Sovietica e possono anche preludere ad un aumento della sua aggressività esterna. Non si allude qui tanto all’occupazione della Crimea, quanto all’incremento dei gesti dimostrativi compiuti negli spazi aerei dei Paesi europei occidentali ed all’intensificazione della pressione sulle minoranze russofone all’estero.
Nel pieno della crisi ucraina, in effetti, il presidente Putin ha introdotto una nuova dottrina di politica estera, che ruota intorno al concetto di “mondo russo” ed alla necessità di tutelarlo. La circostanza, com’è naturale, ha inquietato profondamente estoni e lettoni, che hanno sui propri territori forti minoranze russe, in larga parte tenute in condizioni di minorità giuridica.
La stampa baltica ha dato ad esempio ampio risalto ai presunti tentativi di reclutamento di giovani volontari da destinare al Donbas operati a casa loro da agenzie collaterali al Cremlino. Ed è stata altresì rilevata nelle tre Repubbliche ex sovietiche un’accresciuta presenza di ONG vicine alla Federazione Russa. Le preoccupazioni sono sfociate anche in provvedimenti decisamente illiberali. Nel pieno della battaglia per il controllo dell’Ucraina orientale, ad esempio, la Lettonia ha oscurato i canali televisivi russi ed impedito a noti artisti provenienti dalla Russia l’ingresso nel proprio territorio nazionale; intanto, organismi vicini al Governo di Riga evidenziavano con inquietudine come la generazione più giovane dei russofoni residenti nel Paese dimostrasse minor attaccamento alla Patria. Gli estoni hanno invece lamentato più recentemente il sequestro illegale di un loro agente segreto da parte di un commando russo sconfinato sul proprio territorio.
Di qui, la ricerca quasi ossessiva di protezione e sicurezza che si continua ad avvertire nel comportamento dei Paesi Baltici, insieme all’evidente disponibilità ad aprire nuovi spazi a chiunque possa portare in dote denaro e solidarietà militare. In realtà, un attacco russo su larga scala nel Baltico è estremamente improbabile, mentre è possibile un protrarsi delle interferenze volte ad indebolire il consenso verso i locali governi, già alle prese con gli effetti dell’assottigliarsi degli scambi con la Federazione Russa, da cui non pochi imprenditori dell’area traggono i loro profitti. Ma tanto basta.
Il successo ottenuto finora, in sintesi, è stato probabilmente pagato a caro prezzo. È per queste ragioni che sembra possibile trarre una prima conclusione: la spinta baltica per l’allargamento verso Est della sfera di prosperità occidentale non ha migliorato significativamente la condizione geopolitica dei Paesi che l’hanno alimentata ed ora rischiano anche un severo ridimensionamento delle proprie prospettive di crescita in conseguenza delle sanzioni imposte dall’UE contro la Russia e delle rappresaglie commerciali deliberate da Mosca contro l’Europa comunitaria.