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La Polonia e la UE: una storia di successo e il fattore Germania

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A 10 anni dal suo ingresso nell’Unione Europea, e a 25 dal primo governo presieduto da un politico non comunista, l’integrazione della Polonia nel sistema occidentale può dirsi un successo. Sia dal punto di vista economico – il paese infatti è riuscito a ottenere una buona collocazione nella struttura produttiva che ruota attorno alla Germania – che da quello politico: le credenziali di Varsavia sono in netta crescita a Bruxelles. La Polonia, che era considerata una vera e propria “falla” nel sistema comunista-sovietico, è stata capace di trasformarsi per diverse ragioni.

Uscito devastato e sconvolto dalla seconda guerra mondiale, il paese non riuscì a ricostruirsi del tutto durante i decenni del regime socialista. La supremazia dell’Unione Sovietica fu contestata, fin dagli inizi e regolarmente, non solo dal vasto mondo contadino e dalla radicatissima chiesa cattolica locale, ma anche dagli operai dei distretti minerari, degli altoforni e dei cantieri navali. Al contrario della sua opposizione interna, lo Stato polacco socialista non ebbe mai una seria proiezione autonoma internazionale – proiezione che altri paesi dell’area, come la Jugoslavia, la Romania o la Germania Est, riuscirono ad avere.

Il suo potenziale produttivo rimase poco sfruttato: gli abitanti del paese più popolato del blocco orientale avevano un livello di vita inferiore agli ungheresi, ai cecoslovacchi o ai tedeschi orientali. Il Comecon – l’associazione di cooperazione commerciale dei paesi a economia pianificata – non beneficiò la Polonia: anzi, la dipendenza economica da Mosca non impedì profonde crisi che costrinsero Varsavia a prestiti internazionali, all’acquisto di beni alimentari dall’Ovest, e al varo di durissime politiche economiche, spesso all’origine del malcontento interno.

Dopo la caduta del Muro fu meno complicato del previsto disfarsi di un tale meccanismo. Il Comecon crollò quando Mosca nel 1991 decise di vendere le sue materie prime a prezzi di mercato, invece che cederle a prezzi fissi ai suoi ex satelliti. Ciò rese da un giorno all’altro obsoleto il sistema di produzione polacco, e spinse i governi che si alternarono da quel momento in poi, anche quelli a guida ex comunista, ad accelerare il processo di ristrutturazione e privatizzazione avviato dal 1992 e agevolato da un finanziamento di due miliardi e mezzo di dollari della Banca Mondiale.

Già a partire dal 1996, la Polonia era in effetti entrata nell’orbita economica dell’UE, a cui destinava due terzi delle sue esportazioni e da cui provenivano poco meno della metà delle sue importazioni. La metà di questo commercio aveva origine o fine in Germania, ma si trattava di merci di bassa qualità: l’interscambio con la Polonia pesava sulla bilancia commerciale tedesca solo per il 2%.L’economia polacca restava in forte squilibrio; le cattive condizioni del sistema e la debolezza del mercato interno impedivano l’espansione delle aziende locali. Se la dipendenza da Est era ormai solo energetica (gas e petrolio russi costituivano il 10% degli acquisti dall’estero), bisognava ora aggiungervi quella dalla tecnologia e dai macchinari tedeschi – decisivi per la sopravvivenza industriale del paese.

Le cose non cambiarono per tutti gli anni Novanta. Il boom economico attuale, cioè una crescita media del 4% circa negli ultimi 15 anni, risale infatti al 2002, ed è dovuto a due cause principali e congiunte. La prima è la vicinanza con la Germania – 75km separano il confine polacco da Berlino e meno di 300 dal porto di Amburgo: per questo motivo, l’apparato industriale tedesco ha visto la possibilità di trasformare la Polonia in un ingranaggio del suo poderoso sistema di esportazione. Fabbriche tedesche hanno spostato a Est intere linee di produzione, potendo approfittare del basso livello dei salari e dell’alto livello della preparazione tecnica, e trovando un’alternativa vincente alla delocalizzazione in Estremo Oriente.

La seconda causa ha a che fare con la moneta unica. Grazie ai miglioramenti indotti dagli investimenti tedeschi e dall’uso dei fondi europei per le infrastrutture e la logistica, i beni fabbricati in Polonia sono cresciuti non solo in qualità e quantità, ma anche in convenienza rispetto a tutti i paesi dell’Unione Europea che dal 2001 hanno adottato il fortissimo euro. I prodotti polacchi hanno conquistato nuovi sbocchi nel continente, e alle prime avvisaglie di crisi economica l’esportazione è stata protetta da un’immediata svalutazione della valuta locale, lo zloty, che ha salvaguardato la competitività.

La crescita ha avuto anche l’effetto di sviluppare il mercato interno di un paese di 40 milioni di abitanti – in cui in termini di fondi europei arriveranno ancora circa 80 miliardi fino al 2020. Un vero e proprio vantaggio competitivo, questo, nei confronti di Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, potenziali concorrenti dal punto di vista industriale ma molto più piccole per peso demografico.

La Polonia può essere soddisfatta dei propri risultati. È stata nel 2013 il primo partner commerciale della Germania in tutta l’Europa centro-orientale (inclusa la Russia, i cui scambi sono ora danneggiati dalla crisi ucraina); le esportazioni contano per quasi la metà del suo PIL e sono protette dalla moneta nazionale. Il passivo import-export si è ridotto in dieci anni dal 16% del totale degli scambi al 6% – benché la dipendenza dal petrolio russo continui – mentre ora la Polonia pesa sulla bilancia commerciale tedesca per il 4%.

Non è un caso che a un’integrazione commerciale del genere sia seguito anche un notevole avvicinamento politico tra Polonia e Germania, e dunque anche un miglior posizionamento di Varsavia a Bruxelles. Facilitato dalla stabilità dei governi liberal-conservatori di Donald Tusk a partire dal 2007, che ha coinciso col tramonto dell’influenza del partito nazionalista Diritto e Giustizia (PiS), vicinissimi alle vedute della Cancelliera Angela Merkel in materia d’Europa. Un’evoluzione del genere non era scontata in un paese in cui il sentimento antigermanico, tradizionalmente, è secondo soltanto alla diffidenza nei confronti della Russia.

A sancirla simbolicamente, la frase pronunciata nel 2012 dal Ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski: “temo di meno una Germania attiva che una inattiva”. Ma più concretamente, la recente nomina proprio di Tusk alla presidenza del Consiglio Europeo – carica che occuperà a partire da dicembre, quando scadrà il mandato di Herman Van Rompuy: su questa scelta è stato ovviamente decisivo il parere di Berlino.

Anche in questo caso, i vicini di Varsavia non sono stati all’altezza di competere: Praga ha corretto solo da poco la sua freddezza decennale nei confronti di Bruxelles – la Repubblica Ceca nel 2012 era stato l’unico membro dell’UE a seguire il Regno Unito nel rifiuto del Fiscal Compact; mentre il nazionalista Viktor Orbán, al governo a Budapest, non può aspirare che a un ruolo di partner informale della Germania.

Polonia e Germania sono oggi più vicine anche sulle questioni di sicurezza comune. Il territorio polacco – la convinta adesione di Varsavia alla NATO risale al 1999 – avrebbe dovuto ospitare il dispositivo antimissile che l’amministrazione Bush dichiarava di voler utilizzare in funzione anti-Iran, ma a cui si opponeva duramente il governo di Mosca – l’idea, malvista a Berlino, fu poi accantonata da Barack Obama. E si è parlato della Polonia (Stettino) anche come sede della base della forza di risposta rapida che la NATO vorrebbe schierare in Europa orientale come deterrente a un’eventuale degenerazione della crisi ucraina.

Tuttavia, e benché la Polonia sia molto più in prima linea della Germania nel contrasto alla Russia di Putin, la contrarietà di Varsavia in questo caso è stata netta, e coincidente con quella dell’opinione pubblica tedesca e anche con la linea ufficiale di Berlino: i 4.000 soldati della NATO andranno probabilmente in Estonia. Mai come oggi, in conclusione, è valida la definizione – un po’ scherzosa – della rivista Foreign policy a proposito della Polonia del 2014: una regione tedesca abitata da polacchi.