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Elezioni e Costituzione: i tempi incerti della transizione egiziana

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A fine giugno si sono registrati al Cairo gli scontri di piazza più duri da aprile. L’esercito, per sedare una manifestazione nei dintorni di quello che era stato l’epicentro rivoluzionario, ha usato i lacrimogeni per tenere sotto controllo circa 5.000 egiziani.

Tutto è iniziato dopo che alcune centinaia di familiari delle vittime della rivoluzione scoppiata il 25 gennaio si sono recati davanti al palazzo della televisione per chiedere giustizia per i loro cari. Da qui si sono spostati nei pressi del ministero degli Interni, dove hanno protestato contro il rinvio del processo di Habib el Adly, l’ex ministro degli Interni, ritenuto da molti il primo responsabile degli atti di violenza che hanno portato alla morte di più di 800 giovani. C’è poi stata tensione davanti al tribunale di Alessandria per ascoltare la sentenza di condanna finale ai due poliziotti responsabili della morte di Khaled Said, il giovane blogger ucciso nel giugno 2010, diventato il primo martire della rivoluzione – nessun verdetto è stato pronunciato e la corte ha deciso di rimandare la sentenza finale a settembre.

Ancora a Piazza Tahrir si sono verificate proteste contro la condotta violenta del Consiglio Supremo delle Forze Armate, con la richiesta ai militari di celebrare i processi contro gli esponenti del vecchio regime, prima di tutti gli appartenenti alla famiglia Mubarak, attesi in aula a inizio agosto.

La sete di giustizia, l’epurazione del regime e la fine della violenza sui manifestati sembrano le prime richieste che accomunano tutti gli attivisti. Ciononostante, gli eventi delle ultime settimane hanno mostrato che il processo di transizione è particolarmente complesso, anche a causa di divisioni su molte questioni rilevanti.

A dividere gli oppositori al vecchio regime è soprattutto, in questa fase, la tempistica del processo di transizione, in particolare per la stesura del nuovo testo costituzionale e per i prossimi appuntamenti elettorali. Secondo quanto stabilito dal risultato del referendum tenutosi lo scorso marzo, entro fine anno gli egiziani dovrebbero recarsi alle urne due volte, a settembre per eleggere il parlamento e a dicembre per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Solo dopo queste elezioni si dovrebbe formare un’assemblea costituente, con la stessa composizione del parlamento, con il compito di redigere un nuovo testo. Molti giudicano questa mossa pericolosa, ritenendo più saggio affidare la scrittura del nuovo testo a un gruppo di persone che rappresenti tutti i settori della popolazione egiziana – anche quelli che, ancora poco competitivi, non otterranno alle urne un successo tale da essere rappresentati in parlamento. Pertanto, la stesura del nuovo testo potrebbe anche precedere le elezioni.

A cercare di risolvere la controversia è stato Mohammed El Baradei, ex segretario generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e possibile candidato alle prossime presidenziali. El Baradei ha proposto che prima delle elezioni venga redatta un Bill of Rights, un documento che sarebbe vincolante per la costituente incaricata di redigere il nuovo testo. Secondo quanto rivelato dal sito web del quotidiano Al-Ahram, il documento proposto da El Baradei sarebbe composto da due parti: una dedicata ai principi fondamentali del nuovo ordinamento e l’altra ai diritti fondamentali dei cittadini. L’Islam resterebbe la religione ufficiale e la shari’a, legge islamica, la principale fonte legislativa. Inoltre, a tutti i cittadini dovrebbe essere garantita libertà di espressione e di culto, e il diritto di manifestare pacificamente. Il documento dovrebbe essere poi incluso nella costituzione, senza possibilità di emendamento dei suoi articoli.

Quanto alla tempistica delle elezioni, in una dichiarazione rilasciata alla televisione AlHayat il vice primo ministro ha affermato che l’esercito sarebbe pronto a posticipare di qualche mese le elezioni parlamentari. Questa posizione non è stata ancora ufficializzata dai militari, che sembrano aver siglato un patto con la Fratellanza musulmana – la quale ha tutto l’interesse ad andare alle urne il più presto possibile. È ben noto che, pur essendo un movimento con importanti divisioni interne, la Fratellanza è il soggetto politico più organizzato.

Il dilemma è chiaro anche a Washington, come dimostrano le parole pronunciate recentemente dal segretario di Stato Hillary Clinton, che ha confermato l’esistenza di contatti con il movimento già da qualche anno e ha ribadito l’interesse americano a un processo di engagement nel corso della transizione. La replica del movimento è arrivata dal portavoce Mahmoud Ghozlan: “Da lungo tempo disapproviamo la politica americana di sostegno ai dittatori a spese della popolazione araba nella regione. Se gli Stati Uniti vogliono realmente rispettare i nostri valori e sostenere la libertà come dicono di voler fare, allora questo non sarà un problema.”

Tali dichiarazioni non prefigurano certo rapporti idilliaci con gli Stati Uniti, ma confermano l’atteggiamento pragmatico dalla Fratellanza, tanto nel contesto nazionale che in quello internazionale. Pur senza esagerare la compattezza e il potere del movimento islamista nell’Egitto di oggi, si deve dunque tenere conto che la transizione sarà complessa e molto delicata.