Le rivolte popolari in molti paesi arabe hanno inciso profondamente sugli equilibri di potere tra le élites laiche e quelle religiose. In particolare, l’ascesa della Fratellanza musulmana (che almeno inizialmente è apparsa inarrestabile) ha portato alla ribalta l’associazionismo economico sia per quanto riguarda le possibilità di business, sia in materia di welfare.
In Egitto, all’indomani della caduta di Mubarak, la Fratellanza musulmana è uscita allo scoperto anche sul versante dell’imprenditoria, soprattutto attraverso due associazioni: EBDA e IBIA. La prima, Egyptian Business Development Association, raggruppa molti imprenditori legati alla Fratellanza musulmana. Nel marzo del 2012, Hassan Malek, fondatore dell’organizzazione, aveva dichiarato che la rinascita dell’economia egiziana doveva passare attraverso l’attrazione di capitali stranieri e lo sviluppo delle risorse umane. Nello stesso periodo, EBDA aveva stretto un accordo con l’omologa organizzazione turca, MUSIAD, per avviare progetti di cooperazione e creare un network tra i due paesi.
Proprio seguendo l’esempio degli industriali turchi, il progetto di EBDA (che in arabo significa “inizia”) era piuttosto ambizioso: decentralizzare la manifattura egiziana in tutto il paese, specie nelle aree rurali e poco sviluppate. In tal modo l’organizzazione sperava di innescare la produzione nel comparto delle piccole e medie imprese, contribuendo non solo a favorire lo sviluppo economico ma anche a cementare il potere degli islamisti. EBDA doveva servire anche ad attrarre i capitali provenienti dai paesi del Golfo. L’Autorità per gli investimenti del Kuwait e il fondo sovrano del paese hanno creato, nel 2011, una linea di credito riservata agli investimenti in Egitto, dove la presenza delle imprese dell’emirato (come il conglomerato del Kharafi Group) era rilevante già da tempo. Anche Abd al-Rahman al-Zamil, CEO del saudita Zamil Group, aveva mostrato un forte interesse per le possibilità di apertura del mercato egiziano.
La ricetta degli imprenditori islamisti, almeno in linea teorica, non mirava soltanto a creare un’economia basata sulle esportazioni, ma doveva assicurare anche la necessaria stabilità politica, una solida disciplina fiscale, trasparenza e apertura al mercato globale. Ahmad Galal al-Din, membro di rilievo della seconda organizzazione degli imprenditori egiziani, IBIA (International Business and Investments Association), ha sottolineato in un’intervista che, con il venir meno del regime di Mubarak, l’Egitto stava puntando ad aprire il proprio sistema economico alle nuove potenze emergenti, segnatamente ai paesi BRICs. Prima della rivoluzione, l’Egitto aveva rapporti strategici soltanto con alcuni grandi partner, come gli Stati Uniti; secondo Al-Din, questo rapporto era gestito esclusivamente da Mubarak e dal gruppo degli imprenditori legato alla sua famiglia. Il cambio di regime doveva imprimere la svolta che avrebbe reso l’Egitto libero di agire sui mercati internazionali. Dopo la nuova transizione “extra-costituzionale” dell’estate 2013, con l’eliminazione del governo guidato dal presidente Mohamed Morsi, resta da verificare quale assetto si potrà consolidare alla luce di questi rapporti tra classe imprenditoriale ed élite politiche.
Anche in Tunisia, la rivolta del 2011 ha portato a un cambiamento delle élite economiche. Tuttavia in questo paese, a differenza che in Egitto, il partito Al-Nahda, vicino alla Fratellanza musulmana, non dispone di un gruppo di imprenditori che si possano direttamente etichettare come “islamisti”. A dimostrazione di ciò, dopo la fuga di Ben Ali non sono nate grandi associazioni di categoria vicine al partito islamico. Tradizionalmente, i settori più redditizi dell’economia tunisina (come il settore alberghiero, le telecomunicazioni e i collegamenti aerei) sono stati monopolizzati dai due clan Ben Ali e Trabelsi. A quest’ultimo appartiene Belhassen Trabelsi, fratello dell’ex first lady Layla, magante del settore alberghiero e delle linee aeree Koral e Kartagho. Il governatore della Banca Centrale Tunisina, Chadly Ayri, ha più volte ricordato che il “tesoro” dei Ben Ali, custodito in banche svizzere, ammonta a ben 60 milioni di franchi (circa 62 milioni di dollari) e ha chiesto al governo della confederazione elvetica di trasferire questi beni al governo tunisino.
Affiliato al clan dei Ben Ali è anche quello dei Mabrouk, tramite Cyrine Ben Ali Mabrouk, nipote dell’ex presidente e moglie del magnate Marwan Maboruk. Il conglomerato Mabrouk Group, partner di France Telecom, possiede il 49% dell’operatore mobile Orange Tunisie. Nel 2010, quando fu lanciata la radio Shems Fm, Cyrine ne diventò la manager e, in seguito, la proprietaria. Inoltre Marwan Mabrouk è titolare di partecipazioni in ben quarantadue società diverse che spaziano dai settori della finanza a quelli del commercio e delle telecomunicazioni.
Dopo la rivoluzione, la famiglia Mabrouk è stata accusata di crimini di vario genere, tra i quali appropriazione indebita e corruzione; nel maggio del 2013, un’apposita Commissione per la confisca, istituita nell’Assemblea nazionale costituente, si è espressa in favore del congelamento dei suoi beni. La Commissione ha emanato 1650 ordini di confisca di beni appartenenti ai clan principali e ha destinato tale ricchezza a un fondo speciale, distinto dal tesoro pubblico. Una parte di queste proprietà dovrà servire per risarcire le famiglie dei “martiri” della rivoluzione.
Da questo quadro in evoluzione emergono comunque significative differenze tra i due paesi nordafricani nei rispettivi processi di transizione dopo la caduta dei vecchi regimi. In Egitto, la sorte del governo guidato dalla Fratellanza musulmana, in parte, è stata decretata proprio dall’ingerenza degli islamisti sul piano economico. È noto, infatti, che anche l’esercito detiene forti interessi economici, probabilmente minacciati dall’iperattivismo messo in campo dai Fratelli. In Tunisia, invece, da un lato non esiste un contropotere forte come quello rappresentato dai militari egiziani ma, dall’altro, Al-Nahda non ha stretti rapporti diretti con l’imprenditoria. Piuttosto, gli islamisti tunisini sono rimasti particolarmente attivi nel campo del welfare: questa strategia, già adottata durante la campagna elettorale, fa leva sul concetto islamico di “giustizia sociale” che dovrebbe tendere a ridurre la sperequazione sociale.
Tuttavia, Al-Nahda è spesso descritto dall’opposizione come un partito privo di una vera agenda sociale e, anzi, aperto al liberismo più sfrenato. Secondo questa visione, le manovre operate in campo sociale, come l’adozione di leggi per la costruzione di abitazioni a basso reddito e i sussidi alle famiglie più svantaggiate, sarebbero soltanto operazioni di facciata e in forte contrasto con un’agenda dominata da politiche di privatizzazione e di islamizzazione della finanza. Espedienti, questi, che potrebbero aumentare, piuttosto che ridurre, la sperequazione sociale, se gestite in modo incoerente o poco trasparente.
Sia in Egitto sia in Tunisia, i partiti islamici (vicini alla Fratellanza musulmana ovvero i cosiddetti salafiti) conservano il proprio radicamento sul territorio e la storica vocazione sociale tramite le jama’at. Si tratta di organizzazioni caritatevoli, talvolta vere e proprie ONG, il cui numero è aumentato vertiginosamente in entrambi i paesi dopo le rispettive rivoluzioni.
Una delle organizzazioni più importanti in Tunisia, Tunis al-Khayriyya, è nata in seguito al movimento migratorio dalla Libia, e alla conseguente crisi umanitaria, dopo il crollo del regime di Gheddafi. In modo del tutto spontaneo, un gran numero di tunisini ha iniziato a offrire le proprie case ai rifugiati o a distribuire cibo e beni di prima necessità. In breve tempo si è costituita una rete in grado di mobilitare aiuti umanitari con grande celerità. Altre organizzazioni di questo tipo, come Marhama and Attaawn, hanno coinvolto imprenditori locali e ONG internazionali come Islamic Relief e Qatar Charity. Il referente ideologico di queste organizzazioni è l’Islam e, soprattutto, i suoi “ammortizzatori sociali” come la zakat (elemosina rituale) o la sadaqa (carità).
In Egitto, il parziale ripristino dello status quo ante da parte dei militari può aver abortito sul nascere un fenomeno dagli esiti imprevedibili nel campo dell’imprenditoria. Nel giro di arresti operati dalle forze di polizia egiziane ai danni dei leader della Fratellanza sono stati inclusi anche molti imprenditori, tra i quali Khayrat el-Shater, inizialmente candidato del partito Libertà e Giustizia alle presidenziali al posto di Mohamed Morsi. Inoltre, i beni dei membri di spicco della Fratellanza sono stati congelati dall’attuale governo transitorio, a seguito di una decisione della magistratura. In questo clima, la libertà d’azione degli imprenditori islamisti è perfino più ristretta rispetto agli anni di regime di Mubarak. A seguito del recente colpo di Stato, il rapporto tra le nuove élite economiche e i “regolatori” tradizionali della politica egiziana, come l’esercito, si è sbilanciato nuovamente in favore di questi ultimi.
In Tunisia, invece, secondo molti analisti, l’associazionismo “dal basso” potrà facilitare la creazione di una classe media islamica ancora assente. In entrambi i paesi, il riferimento religioso può produrre senza dubbio una progressiva islamizzazione della società ma non deve essere inteso in modo necessariamente ideologico: piuttosto, in un clima di perdurante crisi economica, le associazioni islamiche sembrano essere l’unico mezzo in grado di distribuire la ricchezza tra le classi meno abbienti, fungendo da valvola di sfogo della pressione sociale.