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Come valutare le scommesse di Obama in politica estera

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I giudizi della storia richiedono uno sguardo lungo, e la politica estera di Barack Obama sarà meglio valutata a qualche anno di distanza dal suo doppio mandato. Ciò è particolarmente vero per un presidente che ha distinto chiaramente tra due tipi di obiettivi internazionali, appena arrivato alla Casa Bianca nel 2008: il primo era immediato, cioè chiudere le due guerre impossibili da vincere che aveva ereditato da George W. Bush in Iraq e Afghanistan (oltre a salvare pragmaticamente la finanza americana per far ripartire l’economia e garantire agli USA il ruolo globale a cui sono abituati); il secondo tipo di ambizioni consisteva nell’avviare dei processi graduali per liberare la diplomazia americana da alcuni vecchi vincoli non più funzionali agli interessi di Washington.

Guardando alla prima categoria di obiettivi, si discute tuttora della loro validità e coerenza, ma sembra un dato di fatto che Obama abbia riportato in linea il consenso interno al suo paese con gli impegni internazionali – cosa che decisamente non era più, visto che mancava la volontà politica di sopportare i costi a lungo termine di una presenza militare massiccia in Iraq e Afghanistan. Le due missioni non sono state del tutto concluse, bensì trasformate in operazioni “chirurgiche” (droni, azioni aeree tradizionali e forze speciali) con costi umani incomparabilmente più ridotti per le forze americane.

Quanto al secondo tipo di obiettivi, la situazione è in rapido movimento, a cominciare dal recente accordo sul nucleare iraniano, che è davvero uno dei punti-cardine del programma di Obama. Non va dimenticato poi che vi erano, fin dal 2008, altre componenti del previsto riassetto della posizione americana in varie regioni-chiave: il dialogo strategico con la Russia (il cosiddetto reset, a cui oggi deve seguire un reset del reset, potremmo dire), il pivot to Asia (con l’aggiornamento e l’ampliamento della rete di alleanze americane in Asia-Pacifico, senza inasprire necessariamente i rapporti con la Cina), il superamento della contrapposizione ideologica tra Washington e alcuni paesi latinoamericani (a cominciare da una piccola isola altamente simbolica, Cuba, che assomma l’eredità del castrismo e la vicenda di Guantanámo).

Per dare un giudizio complessivo, c’è inoltre da valutare la performance delle due amministrazioni Obama in quanto a gestione delle crisi acute. Qui ciascuno può dare la sua interpretazione e anche fare dure critiche: le rivolte arabe e il ruolo ambiguo della Fratellanza musulmana, partendo da un paese centrale come l’Egitto; il caso specifico del disastro siriano, con l’incubazione di ISIS a cavallo del confine con l’Iraq; il conflitto ucraino e il dilemma di dove tracciare una “linea rossa” nei confronti di Mosca; la transizione (si spera non irreversibile) della Turchia da alleato affidabile ad attore autonomo e scontroso; le fiammate periodiche dell’incancrenito contenzioso israelo-palestinese.

Qualunque sia il giudizio sulla gestione (o mancata gestione) di queste crisi da parte americana, non si deve dimenticare che in passato gli errori imputati a Washington sono stati spesso commessi per eccesso di zelo a fronte di una scarsissima comprensione delle dinamiche locali; in questi anni Obama ha scelto sistematicamente di lasciar correre il più possibile quelle dinamiche locali e di spingere i governi regionali a prendersi maggiori responsabilità dirette. Insomma, un approccio a cui non siamo abituati, ma che prefigura un ruolo internazionale degli Stati Uniti ben più selettivo – e magari cauto e riflessivo? – che in passato.

In una categoria intermedia – crisi striscianti, per così dire – possiamo far rientrare le tensioni crescenti nel mar Cinese meridionale e orientale, dove il sistema di alleanze sostenuto da Washington è stato rafforzato proprio per vincolare Pechino a una maggiore prudenza e per prevenire la sua tattica spregiudicata del divide et impera. Anche in questo caso il quadro presenta luci e ombre, ma non sembra corretto affermare che l’equilibrio di potenza sia cambiato radicalmente a svantaggio degli Stati Uniti.

Se torniamo però alle grandi scommesse strategiche compiute da Obama, vediamo soprattutto delle nuove strade che si sono aperte: l’accordo con l’Iran, in particolare, consente di redistribuire il potere negoziale tra USA e paesi arabi in modo vantaggioso per Washington, grazie a una sponda iraniana (che nulla toglie alla capacità americana di contenere le eccessive mire regionali di Teheran). I due grandi avversari del dialogo bilaterale Washington-Teheran sono stati il governo saudita e quello israeliano, cioè i due attori che nel recente passato hanno potuto esercitare un sostanziale potere di veto sulla libertà di manovra diplomatica americana nella regione. Come ampiamente previsto, entrambi hanno messo in guardia dal fare concessioni a un Iran aggressivo e ideologicamente irriformabile; eppure il primo risultato concreto del faticoso dialogo con il paese degli Ayatollah sta spingendo tutti gli attori regionali – si veda la Turchia a partire da luglio – a lavorare con più serietà per sconfiggere ISIS (se non altro per evitare che magari la cosa riesca proprio agli iraniani in cooperazione con Washington…). Inoltre, proprio la strana convergenza tra Riyadh e Gerusalemme sulla questione iraniana fa sorgere il sospetto che il loro vero obiettivo comune fosse frenare le spinte – certo, disordinate e pericolose – al cambiamento nello stesso mondo arabo, quasi che la storia si potesse congelare al tempo dei Mubarak, dei Ben Ali, dei Gheddafi, e della presa degli ostaggi americani a Teheran nel 1979. Se però gli americani riescono a lasciarsi alle spalle il 1979, forse dovrebbero fare altrettanto anche gli arabi sunniti e Israele.

Dunque, in Medio Oriente si stanno aprendo per la diplomazia americana nuove strade ancora non battute; ora vanno percorse con prudenza e immaginazione politica, nella consapevolezza che quelle vecchie stavano portando al collasso di molti Stati della regione e a “cambi di regime” praticamente fuori controllo. Del resto, le forze profonde che hanno investito vari paesi arabi dal 2011 non si possono imbrigliare in modo tradizionale, cioè con qualche aiuto a dittatori più o meno affidabili e spietati: il motivo è che la fascia più dinamica delle popolazioni arabe ha imparato a usare gli strumenti della mobilitazione civica, e li userà ancora. In tal senso, il 2011 è stato l’inizio di un ciclo di sommovimenti, e non certo un episodio una tantum o una coincidenza.

A onor del vero, non è certo sicuro che riequilibrando il rapporto tra sunniti e sciiti, e facendo leva sulla Persia, si vada diritti verso mete costruttive; il percorso sarà comunque tortuoso e lungo. Eppure, qualunque policymaker sa che è preferibile avere un’opzione aggiuntiva piuttosto che avere una sola strada obbligata. Dalla prospettiva americana, quella del controllo totale in Medio Oriente è in ogni caso un’illusione – a maggior ragione con l’attuale livello di complessità strategica e sociale – e dunque si deve necessariamente lavorare con le forze in campo, invece che opporsi ad esse o cercare di dominarle e plasmarle come si fece in Iraq.

Anche se si guarda al dossier Russia, che non sembra affatto incoraggiante a prima vista, ci sono alcuni segnali positivi da monitorare. L’amministrazione Obama ha fatto grandi sforzi per non mandare in fumo i rapporti di collaborazione selettiva con Mosca (soprattutto sulla questione iraniana e in Siria, ma anche sui comuni interessi contro il terrorismo islamista), perfino nei momenti più acuti della crisi ucraina. Sebbene molti ambienti americani – anche della stessa amministrazione Obama – riconoscano nella Russia di Putin una potenza scorbutica, opportunistica, e spesso inaffidabile, la sfida “neo-imperiale” arriva comunque da un paese in declino sostanziale, che cerca di esercitare un’influenza regionale e gioca le sue carte all’ONU ma vede il suo asset principale – le risorse energetiche fossili – ridursi progressivamente di valore.

Del resto, i fatti sul terreno si sono incaricati di mostrare come Mosca abbia sottovalutato anche la sua capacità di controllo diretto degli scontri in Ucraina orientale: è assai probabile che Putin abbia in realtà capito di aver esagerato dopo essersi assicurato la Crimea.

In ogni caso, il punto essenziale è che Obama ha voluto tenere la porta aperta per un dialogo con Mosca quasi a tutti i costi; fa parte della sua scommessa di medio-lungo periodo, e anche dello spostamento verso l’Oceano Pacifico (e probabilmente quello Indiano) dell’asse strategico degli Stati Uniti. In altre parole, pur con tutte le concessioni retoriche agli europei centro-orientali e nordici, e qualche aggiustamento pratico in ambito NATO per reagire alle provocazioni russe, l’atteggiamento di Washington è rimasto possibilista su un recupero del rapporto con Mosca – forse paradossalmente, non per la sua importanza globale bensì proprio per il suo relativo declino. L’Ucraina dunque non sarà abbandonata a se stessa, ma ci sono delle condizioni che anche Kiev deve rispettare per ottenere un vero sostegno occidentale.

In ultima analisi, un giudizio embrionale – per ora certo incompleto – sulla politica estera di Obama viene proprio dall’atteggiamento dei suoi (molti) critici: questo presidente sarebbe incapace di fermare il declino americano e anzi lo starebbe accelerando, ma dai primi sviluppi della campagna elettorale per il novembre 2016 sono emerse ben poche proposte concrete. La critica relativa alla perdita di influenza di Washington rispetto a vari attori locali in teatri strategici è infatti seria e legittima, ma va corredata di una prescrizione alternativa (che fare dunque di diverso?) oltre al generico richiamo a una più vigorosa leadership. Inoltre, il discorso va inserito in un contesto più ampio, guardando soprattutto al ritrovato dinamismo dell’economia statunitense rispetto agli altri paesi OCSE, alle vicende energetiche da cui gli USA stanno traendo grande vantaggio, e di contro ai tanti problemi strutturali che la nuova superpotenza cinese sta appena iniziando ad affrontare. Per essere una sorta di ex-superpotenza allo sbando, gli Stati Uniti sono ancora in una forma accettabile.

Se poi si vuole considerare un grave errore, di per sé, l’apertura dell’ambasciata a L’Avana o il dialogo con Teheran, siamo davvero sul terreno delle opinioni in cui ciascuno ha diritto alla sua. Intanto, sembra opportuno lasciar maturare i frutti acerbi delle iniziative internazionali di Obama e sospendere qualche giudizio.