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Robot e tecnologia, il mercato del lavoro del futuro

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Da qui al 2030, il mercato del lavoro globale avrà totalmente cambiato pelle perché avrà preso il sopravvento la rivoluzione tecnologica.

E, con essa, si saranno pienamente affermate le tecnologie social, il cloud computing, l’uso sistematico dei big data. Ma anche – solo per fare un elenco esemplificativo – una più estesa automazione dei lavori, l’internet delle cose e la stampa 3D, la tecnologia cloud, la robotica avanzata, la genomica di nuova generazione, i mezzi di trasporto autonomi, le tecnologie per l’immagazzinamento dell’energia,  i nanomaterials.

Si tratta di un cambiamento traumatico, che lascia vittime sulla strada. La più illustre è il genus del lavoro subordinato in base a cui, come noto, qualcuno lavora sotto la direzione e nei luoghi di un altro che assume il rischio di impresa e che, per questo, mantiene il potere organizzativo.

La ragione è semplice. Il luogo di lavoro sarà sostituito da spazi virtuali di lavoro, l’orario di lavoro dal potere di ciascun lavoratore di scegliere e gestire il proprio, il potere direttivo datoriale dall’autodirezione del singolo in una logica del risultato e via dicendo. Work anywhere, anytime, direbbero gli inglesi. E dunque smart working. Che in italiano suona come “lavora dove vuoi, quando vuoi e come vuoi”.

Ma quali saranno le concrete ricadute sull’occupazione? La risposta è: almeno quattro.     

La prima è l’estinzione dei posti di lavoro meno qualificati perché le attività manuali, ripetitive ed esecutive di cui essi sono fatti saranno affidate ai robot. Quelle macchine che, già nel 1930, agli occhi di John Maynard Keynes, sarebbero state responsabili della disoccupazione tecnologica.

La seconda, che è in qualche modo cartina di tornasole della prima, è la proliferazione dei posti di lavoro qualificati su cui robot non l’hanno vinta. Per rendersene conto, basta osservare quanto è accaduto dal 1995, agli albori della rivoluzione tecnologica, in Nord America: secondo uno studio di Jeremy Rifkin, appena il 20% della forza lavoro, costituito dai knowledge workers, ha tratto vantaggio da questa rivoluzione mentre il restante 80%, costituita dai lavoratori meno qualificati, ne è rimasta impoverita.

La terza ricaduta è la proliferazione di posti di lavoro legati allo sviluppo delle tecnologie, come già ora lo sono quelli figli della digitalizzazione della produzione, dell’ICT, dei big data e via dicendo.

L’ultima è la proliferazione dei posti di lavoro che hanno la finalità di riempire il tempo libero perché lo smart working avrà l’effetto di darne molto ai lavoratori. Si tratta, soprattutto, dei lavori che curano il benessere fisico e psicofisico, come stima il recente rapporto del governo inglese intitolato The Future of Work: Jobs and Skills. Per rifarsi alla fortunata definizione di Andrè Gorz, una vera e propria “società del tempo libero per tutti”.

È per caso un ragionamento di folli visionari? È l’interrogativo che la regola del dubbio impone, visto che resta difficile credere ad un cambiamento cosi radicale del lavoro e quindi della società. Certo che no. Perché la realtà si è già incaricata di offrire importanti prodromi del lavoro del futuro. È sufficiente prenderne in considerazione alcuni tra i tanti disponibili.

Andando con ordine, la cinese Shenzen Ewerwin Precision Technology Company ha annunciato la robotizzazione di un intero stabilimento e, di conseguenza, il licenziamento di ben 1.600 lavoratori su 1.800, investimenti del calibro di 150 miliardi di euro e prospettive di guadagni di 10 miliardi di euro entro il 2020.

Richard Branson, patron della Virgin, ha abolito lo scorso anno l’orario di lavoro in azienda e quindi permesso ai propri dipendenti di scegliere, con grande responsabilità, i tempi di lavoro e quelli di non lavoro unicamente nella logica del risultato.

Il governo statunitense sperimenta, specialmente in campo militare, “robotizzazioni umane” attraverso l’enhancement, quella tecnica che altera i ritmi del cervello per consentire di restare a lungo svegli, infaticabili e con una memoria a lunga scadenza. 

Londra è rimasta ostaggio dei contratti c.d. a zero hours, che non prevedono né un orario di lavoro minimo né un salario minimo ma la massima flessibilità della prestazione lavorativa, risultando assunti a zero hours il 3,5% del totale degli occupati inglesi. Per fare due esempi, McDonald’s UK impiega il 90% del personale con questi contratti e i famosi negozi Sport Direct 20.000 dipendenti su 23.000.

Se tutto questo è vero, non resta allora che porsi una domanda sulla “bontà” della rivoluzione tecnologica. Papa Francesco la guarda con sospetto nella recente enciclica Laudato Sì per il timore che essa, degenerando, pieghi la dignità del lavoro alla logica del profitto, ma sicuramente sono tanti i frutti che dal suo albero possono cadere.

I primi tre sono il miglioramento del livello della produttività oraria del lavoro, la creazione di nuove economie come quelle (di cui è figlio tra l’altro l’Iphone) che si basano sullo spacchettamento della produzione (unbundling) in vari compiti produttivi (task) e sulla delocalizzazione di essi, per finire con la diffusione dell’e-business.

Si tratta, in fondo, solamente di trovare un nuovo equilibrio.

L’importante, per meglio dire, è che l’uomo riesca a controllare il potere che il progresso tecnologico gli consegna perché esso non si traduca in una incondizionata sopraffazione dell’interesse economico sulla logica del bene comune.

Del resto, il robot resta giovane, affidabile, silenzioso, pulito e intelligente, come il Time lo definì nel lontano 1982 – quando fece del computer Man of the Year – con un affascinante salto logico.

Non ci sono dubbi. Siamo entrati nell’era del postumanesimo. Quella in cui assumono sembianze le cose che, secondo la macchina di Blade Runner, gli uomini non potevano neanche immaginare!