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Come si chiude un anno critico per l’euro

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L’accordo raggiunto a metà dicembre dai leader europei (nell’ultimo Consiglio dell’anno) rappresenta un importante passo avanti, ma anche la dimostrazione di quanta strada resta da percorrere per garantire la stabilità finanziaria dell’area dell’euro. L’interrogativo principale sul tappeto era cosa succederà dopo il 2013, quando l’attuale EFSF (European Financial Stability Mechanism) arriverà a scadenza. La risposta è arrivata con la decisione di creare un nuovo meccanismo, chiamato European Stabilization Mechanism (ESM), che avrà carattere permanente. Sarà simile all’attuale EFSF, cioè si tratterà di un fondo mirato ad offrire supporto a paesi membri che dovessero trovarsi in crisi di liquidità, come è successo quest’anno a Grecia e Irlanda. Inoltre, il debito sovrano emesso a partire dal 2013 sarà ufficialmente esposto al rischio di ristrutturazione, così che anche i creditori privati siano costretti a contribuire allo sforzo.

È un passo nella giusta direzione. Uno scenario ideale di lungo termine dovrebbe comprendere sia un meccanismo di mutuo supporto in caso un paese membro si trovi in difficoltà, sia la possibilità di imporre un costo agli investitori privati, in modo che gli investitori stessi esercitino un ruolo di vigilanza sulle politiche economiche dei paesi membri. Esposti al rischio di perdite, gli investitori dovrebbero immediatamente richiedere più elevati rendimenti da un paese i cui conti pubblici cominciano a deteriorarsi. E, di fronte ad un aumento del costo di finanziamento, il paese in questione dovrebbe sentirsi più motivato a correggere rapidamente la situazione.

Tutto questo, però, non basta, e il recente vertice lascia irrisolti importanti problemi sia di breve che di lungo periodo.

Nel breve periodo, l’eurozona soffre ancora di un serio rischio di contagio: il Portogallo è visto come il paese a maggior rischio di seguire il destino di Grecia e Irlanda, ma rimangono preoccupazioni anche sul destino della Spagna. L’Italia è in posizione molto più solida – ma la crisi ci ha insegnato che, in casi estremi, il panico può avere la meglio sui fondamentali. I leader europei hanno indicato che faranno tutto ciò che è necessario per stabilizzare la situazione, il che implicitamente significa che sarebbero pronti ad aumentare gi stanziamenti sull’EFSF in caso di necessità. Per il momento però, il peso ricade principalmente sulla BCE, che deve calibrare gli acquisti di titoli pubblici in maniera da stabilizzare il mercato—e i vertici dell’istituto di Francoforte sono comprensibilmente preoccupati che questo possa condizionare in misura eccessiva la politica monetaria. Oltre al rischio che nuovi paesi si trovino in difficoltà, c’è il rischio che alcuni dei paesi in crisi non siano in grado di assicurare la sostenibilità del debito pubblico nei prossimi due o tre anni. Se così fosse, bisogna chiedersi se gli altri paesi membri saranno disposti a continuare a finanziare i vicini in difficoltà senza al tempo stesso richiedere un sacrificio anche ai creditori privati. In altre parole: i leader europei hanno indicato che titoli pubblici emessi a partire dal 2013 potrebbero essere ristrutturati, ma non hanno mai esplicitamente promesso che titoli emessi prima del 2013 non saranno mai ristrutturati. E il vero problema è costituito dallo stock di debito pubblico già esistente. Gli investitori sanno quindi che il rischio di ristrutturazione del debito persiste, e sono restii ad acquistare titoli di governi percepiti come deboli. Difficile perciò che la domanda privata per obbligazioni governative dei paesi cosiddetti periferici possa aumentare finché questi paesi non si saranno costruiti una più forte credibilità attraverso il risanamento dei conti pubblici ed una accelerazione delle riforme strutturali. Ma ciò richiede tempo.

Come uscire da questa situazione? Il paradosso è che il problema non esisterebbe se l’eurozona fosse più integrata. Il presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, ha più volte fatto notare che se si guarda ai conti aggregati, sia il disavanzo che il debito pubblico dell’eurozona sono più bassi di quelli di Stati Uniti e Inghilterra, per fare solo due esempi. In altre parole, la posizione fiscale dell’eurozona è più forte di quella di altri paesi avanzati. Il problema è che i conti pubblici aggregati dell’eurozona sona una pura finzione contabile se ciascun paese rimane responsabile del proprio debito. I detentori di titoli pubblici greci o irlandesi possono trarre ben poco conforto dal pensiero che il debito pubblico dell’eurozona è relativamente basso. E qui ci colleghiamo al problema di lungo periodo. È ormai evidente che qualsiasi soluzione deve passare per un maggior grado di integrazione fiscale. Quasi tutte le proposte attualmente sul tappeto lo riconoscono. La proposta del ministro Tremonti di emissioni congiunte di Eurobond, ad esempio, implica un forte grado di corresponsabilità sul debito. Gli accordi raggiunti finora sono insufficienti da questo punto di vista. La corresponsabilità si materializzerebbe solo in condizioni di emergenza. In questo scenario, non c’è motivo perché gli investitori debbano analizzare, ad esempio, la Spagna in maniera diversa da come analizzano l’Ucraina. Entrambi i paesi possono beneficiare di assistenza esterna in caso di emergenza (anche senza l’EMS, per l’Ucraina c’è il Fondo Monetario), e in entrambi i casi c’è un rischio di ristrutturazione del debito. Se tutti i paesi di eurozona riusciranno a raddrizzare i conti pubblici in fretta, bene; altrimenti, il rischio di instabilità permane.

L’alternativa sarebbe un’integrazione fiscale molto più stretta. Questo implicherebbe da un lato un grado più alto di corresponsabilità, dove al limite tutti i paesi diventerebbero assieme responsabili di tutto il debito pubblico. In parallelo dovrebbe comportare o regole comuni molto più credibili di quelle del patto di stabilità, o ancor meglio un’autorità fiscale centralizzata, che a sua volta richiederebbe un maggior grado di integrazione politica. Al momento attuale, questo sembra un castello in aria, politicamente irrealizzabile. L’alternativa, purtroppo, implica però un protratto rischio di instabilità finanziaria per almeno altri due o tre anni.