international analysis and commentary

Come fermare il naufragio europeo nel Mediterraneo

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Migliaia di persone – chiamarle persone: uomini, donne, bambini può forse aiutare – sono morte nel canale di Sicilia dal 2010 in poi. Quella del 19 aprile è stata la tragedia più grave; ma non è la prima e l’ultima purtroppo non resterà. Sono persone in fuga dalla guerra civile siriana, dai conflitti del Corno d’Africa, dalla crisi irachena: sfollati e rifugiati per il diritto internazionale, che possono chiedere asilo. O sono, semplicemente, migranti per ragioni economiche, che sperano di sottrarsi alla povertà. La differenza fra questi due gruppi – rifugiati e migranti – si è persa nei grandi numeri. Non conta affatto per le bande criminali che gestiscono in modo brutale e perverso, dal buco nero della Libia, il traffico di essere umani. Conta poco nella nostra reazione di italiani esasperati dall’annuncio di sbarchi, tragedie, e di altri sbarchi che verranno ancora. E spaventati dalle potenziali connessioni fra flussi migratori e infiltrazioni terroristiche. Ragion per cui, invece che guardare alle persone, ci dividiamo abbastanza sterilmente fra falchi e colombe. Intanto, i Paesi europei più distanti da questo nostro cimitero mediterraneo fanno finta di non sapere che le frontiere italiane sono frontiere dell’UE. E accusano il nostro Paese di essere un colabrodo. Quando ci si chiede se l’Europa esista, basterebbe rispondere così: su 28 Paesi dell’UE, la stragrande maggioranza dei rifugiati, il 70% circa, si concentra in 5 Paesi soltanto, Italia inclusa. Le proposte di quote europee (una divisione degli oneri) sono rimaste sulla carta. E il sistema comune di asilo ha avuto ben pochi effetti pratici.

Una discussione onesta, e non strumentale, sul “che fare” – discussione che si riapre regolarmente dopo ogni tragedia nelle nostre acque territoriali – dovrebbe intanto basarsi su tre punti. Primo: la questione dei flussi migratori dall’Africa all’Europa, attraverso il Mediterraneo, non può continuare ad essere gestita come una emergenza. Non è una emergenza; è un fenomeno strutturale, determinato da una serie di cause evidenti (dal gap demografico fra le due sponde del Mediterraneo, alla gravità dei conflitti, alle condizioni socio-economiche ancora arretrate di parecchi Paesi africani). Se il fenomeno è strutturale, la pressione migratoria continuerà, con numeri senza precedenti. E io non credo che possa funzionare né una risposta puramente umanitaria (un’Europa aperta e in grado di assorbire flussi crescenti: non lo è, se non altro per ragioni politiche), né una risposta puramente “securitaria” (un’Europa chiusa, in grado di respingere i migranti lì dove sono).  In realtà sono indispensabili entrambe le leve: un atteggiamento molto più duro verso le bande criminali – i “neo-schiavisti”, li ha definiti Matteo Renzi – che gestiscono il traffico di essere umani (fino a prevedere misure attive di contrasto sulle coste libiche); la possibilità di esaminare e smistare le domande di asilo in “aree rese sicure” sulla sponda Sud del Mediterraneo (safe havens e corridoi umanitari nei Paesi di transito); ma anche una gestione razionale di flussi controllati, protetti e regolari. 

Secondo punto: nessuna risposta alla tragedia dei flussi per mare funzionerà senza che in Paesi chiave, la Libia anzitutto, venga ricostruita una qualche forma di stabilità. Il governo italiano la considera giustamente una priorità internazionale. La Libia non è una questione del nostro cortile di casa: è il ventre molle attraverso cui i fattori di instabilità mediterranei e africani si scaricano sull’Europa intera. È vero che la pacificazione della Libia dipenderà essenzialmente dalle fazioni e tribù che si combattono. Ma è indispensabile mettere in piedi, perlomeno, una rete regionale di contenimento, basata su accordi con gli attori locali (a cominciare dall’Egitto, ma non solo).

Terzo e ultimo punto: la questione migrazione sta diventando, per la tenuta dell’Unione Europea, un banco di prova più difficile e delicato di quanto non sia la crisi greca. Nel caso della Grecia, la convinzione è di avere creato steccati sufficienti contro il contagio finanziario. Di fronte al fenomeno strutturale dell’emigrazione, l’Europa non sta dimostrando né solidarietà, né la capacità di evitare contagi. Per le norme del cosiddetto Regolamento di Dublino, un Paese come l’Italia – di primo ingresso – ha oneri sproporzionati di accoglienza. È vero – secondo le obiezioni di Germania, Gran Bretagna e Svezia – che la maggioranza dei rifugiati arrivano poi nei loro Paesi. Ma è un sistema opaco e che non funziona: né per l’Italia, sottoposta al grande stress degli sbarchi per mare, né per il resto del Continente. Ugualmente, funziona molto male Triton, l’operazione navale europea che ha sostituito “Mare Nostrum” con un mandato diverso (di sorveglianza piuttosto che umanitario). Con pochi fondi e pochi mezzi, Triton non è in grado di affrontare le emergenze mentre non si è affatto “spento” quel fattore-spinta agli sbarchi attribuito dai critici a “Mare Nostrum”.

Nulla di tutto ciò basterà senza una condizione di fondo: che l’Unione Europea si dia finalmente una vera e propria politica comune in materia di immigrazione, fondata su canali regolari e sicuri e su una visione comune del rapporto da stabilire fra risorse umane straniere e mercato del lavoro continentale. Ciò non interessa solo l’Italia o Malta; riguarda il futuro dell’UE. Anche perché, se non si troveranno risposte convincenti, vinceranno le forze politiche che vogliono chiudere i confini: non solo verso il Mediterraneo ma fra i Paesi europei.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 20 aprile 2015.