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Il “metodo sherpa” che non aiuta un’Europa smarrita

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Tre anni dopo il Trattato di Maastricht, nel 1995, il Financial Times pubblicò un editoriale su “Gli uomini che guidano l’Europa”. L’autore, Lionel Barber, partendo dal ruolo degli Ambasciatori degli Stati membri presso l’UE, dimostrava come le procedure decisionali dell’Unione fossero sostanzialmente assimilabili a quelle della diplomazia classica. A parte qualche esagerazione giornalistica, l’articolo conteneva molti elementi di verità. Non a caso, proprio in quegli anni fioriva un’abbondante letteratura sul “deficit democratico” dell’Unione.

A vent’anni di distanza la situazione, sulla carta, è molto migliorata. Le ultime revisioni dei Trattati hanno rafforzato considerevolmente i poteri del Parlamento di Strasburgo e la politica europea non è più un “oggetto misterioso” per i Parlamenti nazionali. Le cose sono però meno chiare se si passa dalla lettera dei trattati alle dinamiche reali. È vero, i Parlamenti hanno assunto un ruolo di primo piano nei processi decisionali dell’Unione e nella formazione di un’opinione pubblica europea. Nel frattempo, però, il potere reale si è spostato altrove. Lo si è visto nei momenti più bui della crisi dell’euro, quando le principali decisioni sono state prese fuori dai circuiti istituzionali per essere poi ratificate, a giochi fatti, dal Consiglio Europeo. È il cosiddetto “metodo Deauville”, dal nome della località francese in cui (nell’ottobre 2010) il Presidente Sarkozy e la Cancelliera Merkel hanno adottato, a nome di tutta l’Unione, alcune delle scelte più discutibili della storia dell’integrazione europea.

L’ultima manifestazione di questa tendenza a estromettere le istituzioni dai processi decisionali è il ricorso ai rappresentanti personali dei Capi di Stato e di Governo, gli sherpa. Una prassi che rischia di minare le fondamenta della costruzione europea, per almeno tre ordini di ragioni.

Innanzitutto, il “metodo sherpa” rappresenta una netta involuzione rispetto al “metodo comunitario”. Esso è tipico dei consessi internazionali scarsamente strutturati, come il G8 o il G20, in cui le decisioni vengono raggiunte tramite negoziati intergovernativi “classici”. Niente a che vedere con i sofisticati meccanismi sovranazionali della UE. Un metodo puramente diplomatico-intergovernativo che soppianta le procedure sancite dai Trattati è un tipico caso di morto che afferra il vivo, come direbbe Marx. E pazienza se il “metodo sherpa” viene applicato ai grandi dossier di politica estera, dove i governi la fanno ancora da padroni; imperdonabile è che si cerchi di applicarlo anche alle vere e proprie politiche comuni – come sarebbe avvenuto ad esempio per il pacchetto clima-energia se la presidenza italiana del 2014 non avesse insistito per una sua trattazione nelle opportune sedi istituzionali.

In secondo luogo, il “metodo sherpa” ha il grave limite di essere opaco e poco trasparente. I negoziatori intergovernativi che negli anni Novanta avevano attirato gli strali degli studiosi del “deficit democratico” seguivano procedure formali ed avevano una serie di obblighi di pubblicità. Nei limiti del possibile, assicuravano una certa trasparenza delle decisioni.  Gli sherpa no: sono depositari di una presunzione, in base alla quale, essendo “vicini” ai Capi di Stato e di Governo, sono titolati a parlare a nome dei rispettivi Paesi. Ma nessuno sa chi sono, quando si riuniscono, cosa dicono e persino cosa decidono. Una beffa, dopo vent’anni di battaglie per rendere l’Unione più trasparente e democratica.

Infine il “metodo sherpa” ha il limite di essere intimamente oligarchico. Con tutti i loro difetti, le procedure decisionali formali del Consiglio e del Consiglio Europeo garantiscono una voce in capitolo a tutti. Non fosse altro perché, a un certo punto, consentono di votare, in alcuni casi con la possibilità per chi dissente di esercitare un potere di veto. Con il meccanismo affidato agli sherpa non si vota; anzi, non si sa neppure quando e come si decide, chi propone i testi, come e fra chi avvengono le consultazioni, chi ha accesso alle informazioni, da quale “manina” arrivano le proposte, ecc. Il presunto compromesso viene normalmente negoziato in gruppi ristretti, con qualche Paese membro ritenuto “indispensabile”. Gli altri fanno sostanzialmente da cornice.

Certo, a un certo punto il risultato del lavoro degli sherpa arriva sul tavolo del Capi di Stato e di Governo: i rappresentanti personali – affermano i fautori del metodo – si limitano a preparare il lavoro dei loro “Capi”; ma solo un ingenuo può pensare che il Consiglio Europeo – una rappresentazione liturgica, più che un organo decisionale – disfi il loro lavoro. Il “piattino” che gli arriva è già stato cucinato. Se ne potranno cambiare i contorni e la presentazione, non gli ingredienti di base.

Insomma, il metodo sherpa è fatto apposta per attribuire il pallino delle decisioni ad un numero limitato di attori: i “rappresentanti personali” del Presidente del Consiglio Europeo, del Presidente della Commissione e di alcuni Primi Ministri “di peso”. All’insegna del motto: “tutti gli Stati membri sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”. C’è da chiedersi cosa ne penserebbero i Padri fondatori. 

Riscritto oggi, il titolo dell’editoriale del Financial Times suonerebbe molto più problematico o quantomeno avrebbe un punto interrogativo. Verosimilmente qualcosa del tipo: “Chi sono gli uomini che governano l’Europa?”. Il dramma è che a questa domanda sarebbe molto difficile rispondere. Forse nessuno. Forse i soliti noti. Ed è questo che rischia di far smarrire l’Unione.