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Cina: nuovo ordine mondiale o sindrome dell’accerchiamento?

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 È sempre più esplicito l’obiettivo cinese di creare un “nuovo ordine mondiale” che sia sintonizzato sulle linee dell’espansione economica (e poi politica) del paese. A tale obiettivo si contrappone però il credito di cui ancora gode a Pechino quella sorta di teoria del complotto secondo la quale una forma di containment, adottato dagli americani fin dagli anni Cinquanta in chiave antisovietica, viene oggi attuato verso la Cina. Perdono smalto pertanto le ipotesi ottimistiche, secondo cui la trasformazione della Cina in una superpotenza può avvenire “dolcemente”, senza sconvolgere l’assetto delle relazioni internazionali. Il problema di fondo è quello, classico: come instaurare veri rapporti di fiducia reciproca tra Pechino e Washington?

Questi dubbi non significano che abbiano ragione i “pessimisti”, per i quali la fase di transizione da un ordine internazionale all’altro è stata storicamente sempre caratterizzata da aspri conflitti. Un nuovo ordine, infatti, non presuppone soltanto un cambiamento negli equilibri di potenza ma si caratterizza per la necessità di nuovi meccanismi regolatori dei rapporti interstatali. È ciò che pensano e scrivono molti analisti cinesi, come ad esempio Cui Lizu, presidente dell’Istituto cinese di relazioni internazionali contemporanee, aggiungendo che proprio la strategia di apertura economica inaugurata da Pechino ai tempi di Deng Xiaoping ha contribuito a quella interdipendenza globale che oggi riduce il rischio di conflitti violenti. In tale contesto, l’aspetto più degno di nota è che la dirigenza cinese – quella attuale e quella che uscirà dal 18° congresso del Partito comunista nel 2012 – vede come proprio maggiore alleato il grande capitale globalizzato: è la leva da utilizzare per modificare lo status quo. Se si assume questa prospettiva, sono evidenti le enormi differenze tra la Cina di oggi e l’URSS che fu oggetto della politica americana del containment, e dunque anche l’inadeguatezza dello schema bipolare per capire questa prima parte di XXI secolo.

In effetti, l’attuale assetto internazionale (del resto molto fluido) si può meglio descrivere come tendenzialmente multipolare: la strategia cinese di sviluppo interno e di ampliamento del proprio peso internazionale va maturando attraverso una specie di andamento pendolare tra internazionalismo e nazionalismo. È però fuorviante leggere questa oscillazione come il semplice riflesso di un’incertezza sui rapporti con gli Stati Uniti – cooperativi oppure conflittuali. In chiave non solo diplomatico-militare, ma anche economico-strategica, le relazioni tra le due potenze sono di competizione fondata su una forte interdipendenza. Come suggerisce Henry Kissinger nel suo più recente libro sull’Impero di mezzo, la parabola della Cina nella inarrestabile crescita della sua “potenza relativa” sembra dar vita a una nuova forma di “coesistenza”, sia pure “combattiva”.

Il pendolo degli atteggiamenti cinesi è fortemente condizionato dalla sensazione di accerchiamento suscitata dal persistente squilibrio delle forze militari in campo nell’area del Pacifico, a indiscutibile favore degli americani. Per questo motivo, oltre che per alcuni ben noti fattori di debolezza interna, sono in molti a ritenere che, pur avendo ormai raggiunto il rango di “grande potenza”, la Cina sia una “grande potenza fragile”: questa la definizione di Zhag Baijia, vice direttore del Centro ricerche storiche del Partito comunista a Pechino.

Paradossalmente, proprio la straordinaria velocità della crescita cinese ha causato reazioni preoccupate sul piano internazionali, che a loro volta sono sfociate in forti pressioni economiche, incentrate soprattutto sulla questione della rivalutazione del renminbi. Una situazione che è stata presentata dalla propaganda di regime in termini di interferenza diretta, per cui le pressioni internazionali (in particolare americane, ancor più ora che il Senato discute di una legge che penalizzi direttamente la Cina) sarebbero orientate in sostanza a rallentare la crescita del paese. Lo stesso presidente Barack Obama, pur contrario a una guerra commerciale, ha affermato espressamente che Pechino, manipolando i tassi di cambio, danneggia gli USA e distorce gli scambi. Questo aumento della tensione economica si è registrato in coincidenza con la crisi internazionale del 2008, il che porta molti politici e analisti cinesi a una facile equazione: nel momento di massima debolezza americana, chiedere alla Cina un “sacrificio” in termini valutari per ridare ossigeno all’economia occidentale equivale ad impedirle di compiere il passo decisivo verso lo status di superpotenza. Insomma, le si richiede di assumere responsabilità da potenza globale allo scopo di indebolirla e negarle proprio i “diritti” che tali responsabilità sottintendono.

Il rallentamento dell’economia mondiale e i suoi effetti sull’atteggiamento americano determinano, in sostanza, due impulsi contraddittori per la Cina: una fuga in avanti e un ritorno indietro. Da un lato, sempre più forte si fa il desiderio di abbandonare il “profilo basso”, caro a Deng e mantenuto dai suoi successori, per muoversi invece in modo più assertivo sia sul piano bilaterale sia multilaterale attraverso lo strumento del G20 e dell’ONU (con un aumento del contributo economico e perfino la partecipazione a missioni di peacekeeping). Dall’altro lato, affiora una sorta di complesso di inferiorità e cresce il timore dell’accerchiamento, al quale si è tentati di rispondere mostrando i muscoli; e una simile scelta contraddice il principio del “buon vicinato” a cui finora si è ispirata la politica estera di Pechino.

Le tensioni regionali in Asia orientale rischiano di aggravarsi anche per la circostanza che alla strategia americana del containment sembra partecipare, con varie gradazioni, la maggior parte dei paesi vicini. Infatti, non sono soltanto i tradizionali alleati (Giappone, Taiwan, Corea del Sud) ad aver reagito positivamente alle mosse di Washington per rinsaldare la collaborazione politico-militare, ma anche paesi come India e Vietnam. Sembrano quasi esserci le condizioni per la creazione di una specie di “NATO asiatica”.

Il ventaglio di vedute sull’argomento è ampio tra gli analisti cinesi: alcuni ritengono che la maggior parte dei paesi dell’area abbia il sincero desiderio di mantenere relazioni costruttive con la Cina; per i “complottisti” invece, già affiorano segnali per cui vecchi e nuovi alleati di Washington vorrebbero sfruttare la protezione americana soprattutto per accampare pretese territoriali nel Mar Cinese meridionale e orientale. Le controversie sulla sovranità su isole e fondali della regione non sono certo nuove, ma stanno assumendo contorni molto preoccupanti a seguito delle varie manovre militari in una fase in cui sia la marina cinese che quella indiana lavorano per ampliare il proprio raggio d’azione. Gli ambienti vicini alle forze armate sono ovviamente i più attivi nel denunciare i rischi per gli interessi cinesi. Intanto, Pechino considera in chiave anti-cinese anche le critiche americane ai regimi birmano e nordcoreano, che sono tuttora sotto l’influenza diretta della Cina.

In breve, la sindrome dell’accerchiamento non è del tutto infondata, ma è altrettanto vero che la Repubblica Popolare dovrà adattarsi in modo costruttivo a un delicato contesto regionale se vorrà contribuire attivamente a far emergere un ordine internazionale compatibile con i suoi interessi di fondo.