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Il problema della politica estera per i repubblicani: una chance per Obama?

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La politica estera è forse meno marginale di quanto sembri nelle primarie repubblicane. Parlare di sussidi per la produzione di bioetanolo in Iowa significa anche discutere di relazioni con il Brasile; scontrarsi sulla possibilità di offrire borse di studio pubbliche a studenti universitari figli di immigrati illegali vuol dire andare a toccare questioni relative alle politiche sull’immigrazione che tanto incidono nei rapporti tra gli USA, il Messico e diversi paesi centro-americani; e, infine, il solo parlare di politiche fiscali – tema caro a tutti i candidati – implica riportare al centro della scena la discussione sui disastrati conti pubblici, l’alto debito e la debolezza del dollaro.

In altre parole, nel reticolo d’interdipendenze che caratterizza le relazioni internazionali oggi è difficile – nel caso degli Stati Uniti quasi impossibile – distinguere tra un momento politico puramente interno e uno esclusivamente estero: la differenza tra politica interna ed estera si è fatta spesso opaca.

Nondimeno, il mondo – il ruolo che gli Stati Uniti che vi devono occupare e le relazioni con i suoi più importanti soggetti – è apparso poco o nulla nei frequenti dibattiti tra i nove candidati repubblicani alla presidenza. E quando è apparso non sono mancati le approssimazioni e gli strafalcioni, tra chi (l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum) ha sostenuto la necessità di aprire un dialogo con l’ex leader pakistano Pervez Musharraf, oggi in esilio a Londra; chi (il governatore del Texas Rick Perry) ha confuso l’India con il Pakistan; e chi, infine, semplicemente scherza sulla sua ignoranza delle cose del mondo, come il businessman afro-americano Herman Cain, assurto a improvvisa notorietà per le sue buone performance nei dibattiti televisivi e le sue irrealistiche proposte sulle tasse.

Quel poco di discussione che vi è stata ha oscillato tra due estremi. Da una parte vi è chi, per convinzione ma anche per convenienza elettorale, sta cercando d’intercettare il profondo disincanto che regna oggi nel paese nei confronti di politiche internazionalistiche e interventiste. Con l’eccezione dell’attuale favorito, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, tutti i candidati hanno cercato d’intercettare la richiesta proveniente da una parte maggioritaria dell’opinione pubblica di ridurre l’esposizione internazionale degli Stati Uniti. Non si tratta, va da sé, d’isolazionismo: un concetto abusato e malinteso, che ci dice poco del presente e, anche, del passato della politica estera statunitense. Si può piuttosto parlare di un anti-interventismo, che rigetta sia l’internazionalismo liberale degli anni Novanta sia la svolta neoconservatrice del post-11 settembre. Anzi, quanto meno in candidati estremi come i deputati del Texas e del Minnesota Ron Paul e Michelle Bachmann, questo atteggiamento tende ad accomunare i due approcci, quello di Clinton e quello di George W. Bush. In certa misura, è una critica che è stata però fatta propria anche da candidati credibili e forti, come l’ex governatore dello Utah (nonché ambasciatore di Obama in Cina) Jon Huntsman, e lo stesso Perry. Quest’ultimo ha sollecitato un più rapido ritiro delle truppe statunitensi in Afghanistan: “penso che il miglior modo di avere un impatto su quel paese – ha affermato nel suo primo dibattito presidenziale – è di promuovere una transizione in seguito alla quale i militari [afgani] saranno in grado di prendersi cura della loro gente. Riportiamo i nostri uomini e le nostre donne a casa (…) per costruire qui le infrastrutture di cui noi abbiamo bisogno”.

Simili sono le considerazioni di Huntsman: un dato significativo visto che l’ex ambasciatore in Cina ha cercato finora di proiettare un’immagine di competenza, moderazione e sobrietà in una discussione connotata spesso da pressappochismo e ideologia. “Credo che abbiamo perso la nostra fiducia come paese”, ha sostenuto Huntsman, “la nostra innocenza è andata in frantumi. Non si tratta più di promuovere il nation building in Afghanistan, ma di farlo a casa nostra”. Huntsman ha cercato di bilanciare questo suo anti-interventismo ribadendo la necessità di evitare posture troppo aggressive nei confronti della Cina, per gestire in forma collaborativa e consensuale le complesse interdipendenze valutarie e commerciali tra i due paesi.

Una posizione diametralmente opposta è stata sorprendentemente assunta da Mitt Romney, divenuto il favorito in conseguenza della rinuncia di altri possibili candidati, degli errori e dell’impreparazione di Perry e della sostanziale debolezza dei contendenti rimasti. Forse anche per accreditarsi con la destra del partito, Romney ha offerto un messaggio e una proposta di politica estera straordinariamente radicali, nei contenuti e, ancor più, nella retorica. Romney ha prospettato possibili azioni nei confronti della Cina, laddove non smettesse di mantenere il valore del renminbi artificialmente basso. Nel suo primo discorso centrato esclusivamente sulla politica estera, Romney ha affermato la necessità di procedere a ulteriori, massicci investimenti nella difesa; e il riferimento all’intenzione di concentrare questi investimenti in ambito navale (oltre che nel rilancio del progetto di difesa missilistica) ha indotto molti analisti a intravedervi un ulteriore elemento anti-cinese. Il discorso è stato anticipato dalla presentazione del team di esperti che consiglierà Romney sulla politica estera e di sicurezza: tra di essi, moltissimi esponenti dell’ultima amministrazione Bush e studiosi come lo scienziato politico Aaron Friedberg, autorevole sostenitore della quasi ineluttabilità della competizione tra Cina e Stati Uniti, e il provocatorio intellettuale neoconservatore Robert Kagan. E la retorica dispiegata da Romney – unilateralista, messianica ed eccezionalista – è parsa davvero quella dei primi anni di Bush, al punto da ricordare soprattutto la famosa National Security Strategy del 2002. “Gli Stati Uniti – ha affermato Romney – eserciteranno la loro leadership in alleanze e organizzazioni multilaterali” anche “se troppo spesso esse considerano l’atto di negoziare più importante dei risultati raggiunti”. Per questo, gli USA “combatteranno per riportare queste istituzioni alla loro funzione”, riservandosi però “sempre la possibilità di agire da soli per proteggere” i propri “interessi nazionali vitali”. “Dio – ha proseguito Romney – non ha creato questo paese affinché esso fosse una nazione che segue le altre (…) l’America non è destinata a essere una potenza tra le tante, che si bilanciano globalmente le une con le altre. L’America deve guidare il mondo (…) da presidente degli Stati Uniti m’impegnerò a sostegno di un altro secolo americano. E non mi scuserò mai e poi mai per l’America (…) siamo un paese eccezionale con un destino unico nel mondo”.

È chiaro che l’obiettivo principale di questo discorso eccezionalista è il presidente Obama: la sua insufficiente “americanità” o, forse, proprio la sua incontestabile eccezionalità. Con la sua biografia e la sua storia, l’attuale presidente è infatti incarnazione unica proprio di quell’eccezionalismo che Romney rivendica e invoca. Nel dibattito repubblicano ne consegue però un curioso paradosso. Romney, il candidato più forte ma costretto a combattere contro l’ombra del suo passato moderato e centrista, è colui che offre il messaggio più radicale; colui che rivendica un’esplicita continuità con un ex presidente, George W. Bush, ancora straordinariamente impopolare. E lo fa sostenendo posizioni – alte spese militari, prosecuzione dell’intervento in Afghanistan – che l’elettorato (anche quello di destra) oggi rigetta a larga maggioranza. È questa una delle contraddizioni più stridenti di una campagna elettorale che negli ultimi mesi ha offerto a Barack Obama uno dei pochi, residui motivi d’ottimismo.