Il crescente interesse dei maggiori paesi asiatici nei confronti di una governance condivisa dell’Artico, pur privo di apparente aggressività, sembra destinato a provocare nuove tensioni data l’importanza geostrategica della regione. Stiamo assistendo infatti alla trasformazione dell’Artico da zona periferica a spazio globale, sancita dalla presenza di pesi massimi come Cina e Giappone accanto ai tradizionali partner del Consiglio Artico (CA, formato da Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti, Svezia, a cui si aggiungono sei “membri osservatori permanenti tra i quali l’Italia). Questa evoluzione determina una reazione a catena di mosse che riflettono obiettivi contrapposti o almeno difficilmente conciliabili.
Le maggiori potenze asiatiche sono attirate verso l’Artico anzitutto dal petrolio (la US Geological Survey valuta che nella regione si trovi il 13% delle riserve mondiali) e dal gas (stimato in 30% delle riserve mondiali). Inoltre le rotte commerciali che solcano il mitico passaggio a Nord-Ovest e giungono in Europa costeggiando la Russia, sono molto più brevi (ad esempio partendo da Yokohama quasi il 40% in meno) rispetto a quelle che utilizzano lo stretto di Malacca e il Canale di Suez. Sono anche piracy free. I risparmi sui costi dei trasporti intercontinentali sarebbero dunque considerevoli.
D’altra parte proprio la rapidità dei cambiamenti, imposta prima ancora che da scelte politiche dalle prospettive aperte dallo scioglimento dei ghiacci sulla navigazione e sullo sfruttamento delle immense risorse minerarie celate nei fondali marini dell’Artico, assurge a sua volta a fattore strategico importante. Chi sa adattarsi meglio alle novità – chi sa meglio coordinare politica e business – ottiene grossi vantaggi e in questo contesto vengono a crearsi affinità inusuali. Quella strategicamente più rilevante riguarda Mosca e Tokyo, venuta a galla attraverso un dialogo cementatosi con cinque incontri al vertice nel corso dell’ultimo anno tra il presidente russo Vladimir Putin e il premier nipponico Abe Shinzo. L’intesa tra Russia e Giappone ha proceduto col vento in poppa avendo risvolti molto positivi sul piano economico per entrambi; e non sembra sia stata ostacolata dal contenzioso sulle Kurili meridionali (territori del Nord nella dizione giapponese), che pure continua a gravare sui rapporti tra i due Paesi. Rischia ora di incepparsi, però, a causa della crisi in Ucraina, a proposito della quale Abe non ha potuto esimersi dallo schierarsi nel campo antirusso. Insomma il Giappone tocca con mano la difficoltà di conciliare la cooperazione con la Russia e l’alleanza con Washington. E forse si prepara a gestire dissapori con la Casa Bianca fino a ieri impensabili, in uno scenario che avrebbe implicazioni anche per gli assetti che gravitano attorno all’Artico.
La Cina sta percorrendo un cammino più lineare. Ha legato il suo ingresso nell’Artico alle preoccupazioni per i cambiamenti climatici. Poi ha usato la forza economica delle sue industrie di Stato per creare una rete di interessi commerciali coi Paesi rivieraschi. Infine, a partire dal 2008 (con il viaggio del cargo MV Nordic Barents, che trasportava ferro da Kirkenes, Norvegia, a Shangai) ha preso a usare la rotta del Nord: una rotta che, in caso di conflitto con gli Stati Uniti e di blocco dello stretto di Malacca, diventerebbe una vitale alternativa strategica. Pechino si è sforzata nel frattempo di mantenersi neutrale sulle non poche materie di possibile contrasto, limitandosi ad accreditarsi come Paese “limitrofo” all’Artico.
Punto di svolta per quanto riguarda la presenza dell’Asia (Russia a parte) è stata nel maggio scorso l’ammissione di Cina, Giappone, India, Corea del Sud e Singapore nel CA, l’organismo destinato a gestire lo sviluppo della regione e a salvaguardare i suoi complessi ecosistemi. Questi Paesi hanno ottenuto lo status di osservatori senza diritto di voto, e non di membri a pieno titolo (che spetta solo agli otto rivieraschi); ma ciò è bastato a “globalizzare” i problemi dell’area artica. E rapidamente anche Russia e Stati Uniti, le due grandi potenze tra i membri fondatori del CA, pur favorevoli all’apertura verso l’Estremo Oriente asiatico, sono stati spinti a una significativa rimodulazione della propria politica.
Il segretario di Stato John Kerry, annunciando il 14 febbraio scorso la decisione di nominare un rappresentante speciale per difendere gli interessi americani nella regione, definiva l’Artico l’ultima frontiera globale: un’area con enormi e crescenti implicazioni di natura geostrategica, economica, climatica e ambientale per il mondo intero, nel contempo determinante per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Spiegando la strategia artica del Pentagono, il segretario alla Difesa Chuck Hagel chiariva inoltre che i cambiamenti nella regione impongono agli Stati Uniti la presenza di una flotta permanente con relative infrastrutture. I tempi di questa mossa non sono in effetti rapidissimi, visto che Hagel indicava l’orizzonte del 2025. Ben diverso il ritmo imposto da Putin, anche in considerazione del fatto che per ragioni geografiche la Russia ha oggettive necessità di deterrenza nei confronti di eventuali attacchi dall’esterno: Mosca ha avviato, nel corso del 2013, quella che alcuni hanno definito una vera militarizzazione della regione. Putin avrebbe l’obiettivo di procedere entro il 2014 al dispiegamento in Artico di infrastrutture e unità militari. E in effetti negli ultimi mesi è stato annunciato che verranno ripristinate sette basi chiuse dopo la caduta dell’URSS, verrà istituito il Comando strategico unificato della flotta del Nord, sarà potenziata la difesa aerea e saranno installati radar di early warning.
Si prefigura in sostanza una sorta di generalizzato Pivot to the Arctic potenzialmente destabilizzante, anche perché la pressione dall’Asia verso l’area artica, seppure al momento esente da aspetti militari, potrebbe presto accrescere la competizione strategica nella regione e collegarsi ad altri fronti.
Ad esempio, l’Artico è per l’India – che sta passando dalla fase delle ricerche climatiche (attraverso la stazione scientifica nella Spitzbergen) a quella delle prospezioni petrolifere nel mare di Okhotsk – una valvola di salvezza per la sua sete di fonti di energia; accrescendo i punti di incontro tra New Delhi e Mosca, diventa un tassello importante di quel rapporto a tre Russia-India-Cina che condiziona nel suo ondivago movimento gli equilibri in Asia.
È comunque in particolare la Cina a giocare la carta artica pensando a più tavoli. Evita di creare problemi sul rispetto della Convenzione sul diritto del mare, sulle zone economiche esclusive e sulle eccezioni al limite delle 200 miglia nautiche richieste da Mosca e Ottawa – fino a rivendicare la sovranità sul Polo Nord – in base al prolungamento della piattaforma continentale. Ma questa ortodossia legalista da vendere al migliore offerente – oggi identificabile negli Stati Uniti – è una cambiale che Pechino può presentare quando si inaspriscono altre querelle collegate la diritto del mare, riguardanti acque più vicine alle proprie coste. Sulla libertà di navigazione ha poi buoni argomenti per impostare partendo da posizioni di forza una trattativa con Mosca, che non nega in astratto la validità di questo principio, ma lo contraddice nella pratica con la scusa di aiutare chi solca le infide acque dell’estremo Nord. Su questa materia, sensibile anche per molti potenziali amici e partner economici, soprattutto dell’area ASEAN, la Cina può ora scegliere l’appeasement con Mosca o la difesa del libero commercio a seconda delle opportunità.
Il do ut des che potrebbe prospettarsi per Pechino sia con gli Stati Uniti sia con la Russia ricade sul ruolo che nell’Artico intende avere (o sarà costretta ad avere) la NATO. Finora ha avuto scarsa rilevanza la presenza di ben quattro membri dell’Alleanza nel CA, visto che questo non poteva occuparsi di questioni strategico-militari; ma queste non potranno ancora a lungo essere lasciate fuori dalla porta, come indica il progressivo allargamento delle competenze del CA. E se la coesione del blocco NATO è relativamente facile quando il confronto è con la storica controparte russa, tutto diventa più difficile quando si deve fare i conti con l’incrocio di interessi economici che i Paesi asiatici portano con sé. La Cina ha già dato segnali precisi, per esempio intervenendo a favore dell’Islanda durante la crisi finanziaria che l’aveva travolta o scavalcando tutti i concorrenti occidentali nel proporre alla Groenlandia massicci investimenti in settori strategicamente fondamentali come quello dei minerali rari.