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Armi e risorse dell’esercito jihadista in azione in Iraq

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Non un gruppo di jihadisti improvvisati, animati solo da un profondo sentimento anti-occidentale, ma un esercito vero e proprio, organizzato e ben pagato. I miliziani sunniti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante lo hanno dimostrato nella loro marcia irachena su Mosul, Tikrit e Tal Afar, quando è diventato chiaro che il gruppo ha ormai tutte le caratteristiche di una forza para-convenzionale in grado di realizzare azioni complesse, sostenute logisticamente.

L’organizzazione, che dice di ispirarsi ad Al-Qaeda e al suo programma, conta secondo alcune stime (inevitabilmente approssimative) su 11-30mila combattenti (dei quali 3-5mila sono non iracheni) inquadrati in battaglioni da 200 o 300 uomini. Si divide fra la Siria, dove combatte Bashar al-Assad, e l’Iraq, dove ha occupato all’inizio dell’anno la capitale Ramadi e il principale centro della provincia di Anbar (Falluja, a ovest di Baghdad).

Come una vera forza armata, l’ISIS – questo l’acronimo inglese – ha una struttura di comando e controllo efficiente. Le singole unità sparse sui territori godono di grande libertà, ma sono in grado di coordinarsi per operazioni congiunte di notevole efficacia.

I miliziani sono soldati a tutti gli effetti, esperti di guerriglia e capaci di ricorrere tanto a strumenti “artigianali” come camion bomba quanto a mezzi pesanti tradizionali.

A sostenere la loro azione c’è un arsenale di tutto rispetto, procurato in gran parte grazie ad assalti alle caserme o sottratto ad altre milizie con cui l’organizzazione è in conflitto – come gli insorti dell’Esercito della Siria Libera, ma anche dei jihadisti della Brigata al-Nusra, che Al-Qaeda riconosce come sua unica branca siriana. Il nucleo dell’ISIS vede la luce nel territorio di Baghdad proprio come frangia qaedista durante la leadership di Abu Musab al-Zarqawi, ammazzato durante un attacco aereo congiunto compiuto da forze statunitensi e giordane il 7 giugno 2006 in una casa vicino a Ba‘qūba, la capitale del governatorato iracheno di Diyala situata a circa 50km a nord-est di Baghdad. Cresce nel 2010, quando a guidarla arriva il capo attuale, Abu Bakr al-Baghdadi: il suo contributo è decisivo per trasformare il gruppo in “Stato islamico dell’Iraq”. Ma il salto decisivo arriva durante il conflitto siriano, quando alla denominazione si aggiunge “del Levante”.

Nel 2013 la separazione definitiva dalla stessa Al-Qaeda, decisa dal leader di quest’ultima Al-Zawairi, che aveva più volte intimato ai miliziani dell’ISIS di ritornare in Iraq, lasciando alle fazioni già presenti in Siria il controllo del territorio e abbandonando così l’obiettivo dichiarato di creare un emirato transfrontaliero, a cavallo del confine fra Baghdad e Aleppo.

L’arsenale del gruppo è in costante evoluzione: solo nell’ultima azione lo scorso 10 giugno l’organizzazione avrebbe conquistato centinaia di veicoli di tutti i tipi – Cougar (veicoli resistenti alle mine), e Humvee che secondo diverse fonti si troverebbero già nella base siriana di Raqqa – oltre a svariati pezzi di artiglieria e munizioni, mortai e persino alcuni elicotteri.

Secondo l’analista iracheno Hisham al-Hashemi – sentito dal Washington Post – l’esercito ufficiale iracheno avrebbe lasciato nei depositi abbandonati dai soldati in fuga materiale per un valore di circa 1,3 miliardi di dollari, fornito in buona parte dagli Stati Uniti. Questo non sarebbe però finito necessariamente in toto nelle mani del gruppo terroristico, che potrebbe averne distrutto una parte non trovandola utile alle proprie necessità.

Si tratta di un equipaggiamento misto – in parte di origine ex-sovietica ma anche più moderno, proveniente da arsenali occidentali e finito in Siria per sostenere la “resistenza” contro Assad (come per i fucili d’assalto M-16 e i sistemi controcarro TOW).

Ma le armi convenzionali non sono le uniche in mano all’ISIS. Con gran parte della produzione di grano proveniente dal nord dell’Iraq e con quasi tutte delle risorse idriche del Paese che scorrono attraverso le zone sotto il loro controllo, il più grande strumento che i jihadisti stanno utilizzando per compiere la loro avanzata è quello del ricatto alimentare. È improbabile che il ministero del Commercio di Baghdad riesca a garantire ancora a lungo il transito dei camion di frumento; ed è prevedibile che le dighe dei fiumi Eufrate e Tigri, che arrivano in Iraq rispettivamente dalle province occupate di Anbar e Ninive, verranno presto chiuse a oltranza.

Come si finanzia l’organizzazione? La prima ondata importante di denaro è arrivata con la vendita del petrolio dei giacimenti controllati dai miliziani nell’Est della Siria, alcuni dei quali sono stati poi rivenduti al governo di Assad. Un fiume di soldi che si è sommato alle risorse rastrellate con il contrabbando di altre materie prime e di antichità saccheggiate da scavi archeologici.

Come ha documentato recentemente il Guardian (in base ai dati contenuti in alcune memorie flash ritrovate in un nascondiglio dalle Forze irachene), prima della caduta di Mosul nella cassa dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante si trovavano circa 875 milioni di dollari, saliti subito dopo a due miliardi con i soldi rubati dalle banche e con le armi trafugate. Ciò ha consentito all’ISIS di compiere in poco tempo il passo per trasformarsi da un gruppo locale in una delle organizzazioni terroristiche più ricche e organizzate, forse più della “casa madre” fondata da Osama bin Laden.

Con un raggio d’azione e controllo che si estende ormai dal bordo orientale di Aleppo, in Siria, a Falluja, Mosul e ora Tal Afar in Iraq, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante rappresenta al momento una minaccia dagli esiti imprevedibili, soprattutto nell’ottica di un allargamento del conflitto sunnita-sciita ad altri attori, a cominciare dall’Iran.