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L’Afghanistan verso la nuova presidenza: cosa cambia e cosa no

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Sette milioni di afgani sono andati a votare al secondo turno delle presidenziali per scegliere chi sostituirà Hamid Karzai, diventando il nuovo capo di Stato di un Paese che ha ormai sulle spalle 35 anni ininterrotti di guerra. È una buona notizia, anche se i dati dell’affluenza del 14 giugno sono ancora poco affidabili. Secondo alcuni si è avuto un calo fisiologico tipico dei ballottaggi, secondo altri si è avuto almeno lo stesso numero di votanti, cioè oltre il 60% degli aventi diritto. Sono comunque molti gli afgani che hanno intinto il dito nell’inchiostro indelebile: un simbolo del voto esibito spesso con orgoglio. Il risultato finale e ufficiale è previsto per il 22 luglio; anche se un rinvio è sempre possibile ma ai primi d’agosto la legge impone che avvenga l’insediamento del nuovo presidente e dunque il lavoro di questo mese – per contestare le oltre 500 lamentele già arrivate alla Commissione deputata (Election Complaints Commission) – servirà a fornire un quadro di certezza e legalità. Sembra comunque fin da ora che si sia sancito il superamento dell’epoca di frodi e brogli impuniti che caratterizzò l’ultimo voto presidenziale, nel 2009, da cui uscì vittorioso un Karzai azzoppato dalle polemiche e dai sospetti.

Gli osservatori europei, poche decine per la verità, non hanno avuto contestazioni da fare. Più duri i commenti della Free and Fair Elections Foundation of Afghanistan (FEFA), organizzazione della società civile locale che invece di rilievi ne ha fatti parecchi. Senza contare che il candidato Abdullah Abdullah ha apertamente contestato la Commissione elettorale (Independent Election Commission) chiedendo addirittura la testa del suo primo segretario, Zia-ul Haq Amarkhel, accusato di frode. Richiesta respinta al mittente dal capo della Commissione Ahmad Nuristani, un uomo che ha affrontato l’intero dossier elettorale con competenza, trasparenza e risolutezza.

Prima vittoria, dunque, il processo in sé. Seconda vittoria, l’affluenza. Una terza vittoria è stata la capacità di esercito e polizia afgani di garantire il voto. Quattrocentomila uomini in divisa hanno presidiato i seggi e oltre 25mila sono stati dispiegati nella sola Kabul. Gli attacchi della guerriglia avrebbero registrato, nel giorno del voto, un decremento del 40% anche se purtroppo il bilancio di morti e feriti resta elevato, persino più che durante il primo turno del 5 aprile. Ma in un Paese di fatto in guerra e dove ogni anno muoiono migliaia di civili, soldati e guerriglieri, la giornata del 14 giugno è stata pressoché esente da episodi eclatanti di violenza. Era difficile metterli in atto, visto il dispositivo di sicurezza, ma forse questo dato indica anche che tra i talebani queste elezioni sono state un segnale su cui riflettere proprio in ragione del consenso ottenuto. Come che sia, l’esercito e la polizia nazionale se la sono cavata senza dover ricorrere all’aiuto della NATO. Era questa la sfida. Vinta.

La sfida elettorale invece è ancora tutta nelle urne. Abdullah, il candidato favorito al primo turno col 45% delle preferenze contro il 31% del suo contendente Ashraf Ghani, ha mostrato irritazione e nervosismo immediatamente dopo il voto. Segno, secondo gli osservatori, che la bilancia degli apparentamenti, o anche la decisione di molti di cambiare il proprio voto al ballottaggio, potrebbe riservare sorprese. Ghani invece è rimasto più tranquillo, com’è nel personaggio che si è sapientemente ritagliato addosso e che, nei dibattiti pubblici, si è dimostrato calmo e sicuro, curato nell’abbigliamento sino ai dettagli: copricapo pashtun e abito tradizionale per le visite nei villaggi, completo occidentale per le conferenze stampa.

Sebbene alcuni exit poll attribuiscano la vittoria a Ghani, questi rischia di perdere: Abdullah si è infatti guadagnato l’appoggio dell’ex ministro di Karzai Zalmai Rassoul (11% al primo turno) e, seppur indirettamente, del campione islamista Abdul Rasul Sayyaf (7%), nonché dell’ala non clandestina del partito Hezb-e-Islami (il cui leader guerrigliero clandestino è Gulbuddin Hekmatyar, che ha invece sconfessato la scelta). Poi c’è la famiglia di Ahmad Shah Massud (il “leone del Panjshir”, eroe nazionale ucciso alla viglia dell’11 settembre) che si è divisa sui due candidati. E infine c’è la famiglia Karzai, che è scesa nell’agone dichiarando lei pure una duplice scelta: Qayum, che si era inizialmente candidato a presidente, ha deciso per l’appoggio ad Abdullah; Mahmud, il fratello più anziano del capo dello Stato uscente, per Ghani. Non pochi ci hanno visto il desiderio di Hamid Karzai di poter ancora contare nel futuro del Paese con una divisione equanime dei voti di famiglia (che, viste le percentuali di Rassoul, inizialmente considerato il “cavallo” elettorale del presidente, non devono essere poi tanti).

Comunque vada, un prezzo per gli appoggi ottenuti dovrà essere pagato. Abdullah si è scelto come vicepresidente mullah Mohaqeq, personaggio tradizionalista e oscurantista con un passato gravato da pesanti accuse di violazioni dei diritti umani durante la guerra civile tra mujaheddin anti-sovietici. Inoltre i voti del Nord, zoccolo duro di Abdullah (era il medico personale del “leone del Panjshir”) verranno fatti pesare al momento della distribuzione dei posti di potere. Quanto a Ghani, ha anche lui i suoi problemi: il primo si chiama Dostum – scelto come vice presidente – il generale che fu prima filo-URSS e poi filo-mujaheddin, il cui passato è ancora più insanguinato di quello di Mohaqeq (sebbene il generalissimo di idioma uzbeco abbia quantomeno chiesto pubblicamente scusa). Ghani deve anche molto ai secolaristi, i laici in gran parte ex-comunisti che pochi non sono: questo gruppo non viene allo scoperto da tempo, né Ghani ha propagandato il loro appoggio per molti versi imbarazzante.

La comunità internazionale per ora sta a guardare: ha saggiamente fatto un passo indietro, senza elargire consigli o, peggio, direttive. C’è chi dice che l’esito più auspicato sia Ghani presidente – un passato alla Banca mondiale, esperienza di governo, buone letture e atteggiamento laico. C’è invece chi sostiene che Abdullah, considerato più malleabile, sarebbe gradito a molti funzionari occidentali, ma altri ancora sottolineano le difficoltà di avere come negoziatore un ex-capo dell’Alleanza del Nord (il gruppo mujaheddin che aiutò gli americani nell’invasione del 2001 per cacciare mullah Omar), che sarebbe dunque la persona meno adatta per trattare coi talebani. Ghani sarebbe in tal senso avvantaggiato perché percepito come meno di parte.

Per il rapporto con gli americani invece – l’altro grande interrogativo dopo che Karzai si è ostinatamente rifiutato di firmare con loro il patto di partenariato sulla sicurezza (BSA) – non ci saranno problemi. Il giorno dopo l’insediamento, il nuovo presidente, che sia Ghani o Abdullah, firmerà il protocollo congelato, magari con qualche aggiustamento su cui si sta probabilmente già lavorando. L’Afghanistan ha bisogno della comunità internazionale, i cui finanziamenti sono vitali per la tenuta stessa del paese. Il primo problema è infatti non scivolare nell’oblio e nel conseguente taglio dei fondi da cui dipende al 90% il PIL afgano. Accadde a Najibullah, il presidente filosovietico che Mosca lasciò a Kabul dopo il ritiro dell’Armata rossa nell’89: resistette un paio d’anni prima che il Politburo decidesse di tagliargli il fondo cassa con cui venivano, tra l’altro, pagati gli stipendi ai soldati. Il suo esercito, senza salario, si sciolse come neve al sole e i mujaheddin entrarono senza fatica a Kabul. Esperienza da non ripetere.