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Arabia Saudita e Iran: una possibile convergenza contro lo Stato Islamico

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La comune minaccia del cosiddetto “Stato Islamico” (IS) sta accelerando il disgelo fra Arabia Saudita e Iran. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e il capo della diplomazia saudita Saud al-Faysal hanno avuto un colloquio a New York, a margine della sessione delle Nazioni Unite, dichiarando di voler “aprire una pagina nuova” in tema di cooperazione per la sicurezza regionale. Un incontro che pochi mesi fa sarebbe stato impossibile immaginare. Beffardamente, i terroristi del califfato rappresentano ora un’insidia per l’Arabia Saudita: è proprio il paese-leader nel Golfo arabico ad aver finanziato (sia a livello pubblico che privato) le milizie jihadiste attive fra Siria e Iraq. Ciò è avvenuto in competizione con il piccolo ma ambizioso Qatar, che voleva sfidare l’egemonia di Riyad nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e sul piano regionale. Adesso, l’ormai celebre schema che vedeva i sauditi sostenere i gruppi salafiti, mentre i qatarini e i turchi appoggiavano quelli legati alla Fratellanza Musulmana, si confonde nel magma siro-iracheno, dove è quasi impossibile individuare la fisionomia stabile delle formazioni militanti. Soprattutto, non è chiaro il reale peso politico-militare della Coalizione Nazionale Siriana e dell’Esercito Libero Siriano, da tempo sotto influenza saudita.

Il regno degli Al-Saud teme lo Stato Islamico per tre ragioni di fondo. In molte aree fra Siria e Iraq, IS è ormai in grado di autofinanziarsi, mediante la vendita del petrolio locale e la pratica dei rapimenti: la crescente autonomia economica del gruppo terrorista dai suoi patrons regionali indebolisce la capacità di condizionamento di questi ultimi, che possono così essere esposti a ritorsioni. Questo dato si combina con la seconda ragione di preoccupazione, cioè il fattore umano: sono tanti i cittadini sauditi e della penisola andati a combattere il jihad all’estero (non solo nel territorio del “Califfato”, ma anche in Yemen e nella penisola del Sinai). Nonostante il frettoloso inasprimento delle leggi anti-terrorismo in tutti i paesi del CCG, i jihadisti potrebbero tornare in patria per organizzare attacchi, visto l’odio verso le dinastie reali, storiche alleate dell’Occidente. Infine vi è il fattore geopolitico: lo Stato Islamico rappresenta un quarto fronte che minaccia la sicurezza del perimetro geografico saudita. Il confine settentrionale del regno si affaccia sulla polveriera dell’Anbar iracheno; lungo il confine meridionale con lo Yemen operano sia cellule di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) che miliziani huthi, gli autonomisti sciiti yemeniti, forse finanziati dall’Iran; sul fronte orientale vi è poi il Bahrein della protesta sciita, scenario osmotico con la regione orientale saudita, abitata dagli sciiti.

Contrastare lo Stato Islamico è anche nell’interesse nazionale dell’Iran, che ha inviato da tempo gli Al-Quds, i reparti speciali del generale Qassem Suleimani, a combattere fra Siria e Iraq, in coordinamento con gli Hezbollah libanesi e alcune brigate sciite irachene. Il califfato sunnita nel Levante arabo priva Teheran della profondità strategica verso il Mediterraneo. Inoltre, la Repubblica Islamica è attenta all’insorgenza armata nella provincia sudoccidentale e frontaliera del Khuzestan (Al-Ahwazi in arabo), che da sola produce circa il 90% del petrolio iraniano e che ospita la minoranza di etnia araba del paese (pari al 2% della popolazione dell’Iran). Nonostante la maggioranza degli Ahvazi sia di confessione sciita (vi sono anche sunniti), i gruppi autonomisti dell’area, che lamentano povertà e discriminazione, si sono compattati e hanno stretto legami con l’opposizione siriana e la Fratellanza Musulmana; gli attentati alle infrastrutture energetiche della provincia araba dell’Iran sono ora frequenti.

Però, la minaccia dello Stato Islamico offre all’Arabia Saudita anche un’opportunità: uscire dalla spirale politica in cui è avvitata, conseguenza del riavvicinamento fra USA e Iran. Infatti, il riposizionamento saudita nel Golfo in chiave anti-IS permette al regno wahhabita, con una sola mossa, di far accettare all’opinione pubblica interna (e a parte della stessa dinastia reale) la détente con Teheran, di riallineare il Consiglio di Cooperazione del Golfo dietro la sua guida, e di recuperare il rapporto stanco con Washington. Il tutto senza lasciare troppo campo all’Iran, che peraltro pure non parteciperà – almeno formalmente – alla Coalizione anti-IS.

Vi sono dunque importanti intrecci tra il quadro interno e le scelte in politica estera. Nel 2014, il re saudita Abdullah ha gradualmente rimescolato le pedine dello scacchiere reale, spingendo l’ala degli Al-Saud che si è mostrata più intransigente sull’Iran verso incarichi di minore visibilità; su tutti, il principe Bandar bin Sultan, già capo dell’intelligence e responsabile del dossier Siria, è ora consigliere speciale del re, incarico prestigioso ma non direttamente operativo. Questa strategia è coerente anche con la nomina del nuovo ambasciatore saudita a Teheran, Abdul Rahman al-Shehri – una scelta salutata positivamente dagli ambienti vicini a Rouhani. Questa linea dovrebbe inoltre aiutare Riyad a smussare le asperità con la Casa Bianca. La partnership fra le monarchie del Golfo e l’amministrazione Obama ha infatti raggiunto, lo scorso luglio, i minimi storici, quando un diplomatico americano (Tom Malinovski, con incarichi relativi a democrazia e diritti umani) è stato dichiarato “persona non grata” ed espulso dal governo del Bahrein, per aver partecipato a una riunione di Ramadan organizzata da Al-Wefaq, il movimento politico sciita che sostiene la protesta della maggioranza confessionale bahreinita.

Intanto, ci sono segnali importanti di una collaborazione quantomeno pragmatica e selettiva tra Iran e Stati Uniti: un episodio concreto è quello sul campo di battaglia per la liberazione della città irachena di Amerli, quando per rompere l’assedio di IS alla comunità sciita turcomanna, gli elicotteri statunitensi hanno coperto l’avanzata dei reparti speciali iraniani, bombardando le postazioni dei jihadisti.

Guardando agli equilibri di forza tra le monarchie del Golfo, la percezione della gravità della minaccia terroristica posta dallo Stato Islamico sembra riallineare gli attori del CCG, specie il Qatar, dietro la leadership saudita; questa osservazione è applicabile però al solo Levante arabo, dove sauditi e qatarini si sono già abbondantemente sovraesposti, in termini politici e mediatici. Libia ed Egitto, scenari ormai interdipendenti, sono l’altro campo di battaglia intra-sunnita, sia in termini finanziari che politico-militari; stavolta sono gli Emirati Arabi Uniti a giocare il ruolo dei protagonisti a Tripoli (di sponda con Riyad e Il Cairo), sostenendo la campagna di Khalifa Haftar contro le milizie islamiste appoggiate dal Qatar.

In questa fase, Arabia Saudita e Iran sostengono entrambi il nuovo governo di unità iracheno, guidato dallo sciita Haidar al-Abadi (che non ha ancora assegnato i portafogli cruciali di difesa e interni). Dati i tradizionali legami clanico-tribali, gli statunitensi sperano che i sauditi spronino le tribù sunnite dell’ovest dell’Iraq ad affiancare l’esercito regolare (e gli aerei USA) nella liberazione delle aree sotto il controllo dei terroristi di IS, che si sono innestati – è bene ricordarlo – sul malessere politico e sociale di larga parte della comunità arabo-sunnita. Dopo l’uscita di scena del premier Nuri al-Maliki, una ventina di tribù sunnite dell’Anbar, fra le città di Ramadi e Haditha, hanno deciso di combattere i jihadisti ed è probabile che il numero aumenti quanto più la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, investirà risorse economiche e militari contro lo Stato Islamico. Faide interne ai clan, rancori e sfiducia verso Washington rendono però difficile la riproposizione di un’operazione come la sahwa (mobilitazione tribale) anti-qaedista del 2005-06.

Quanto alla Siria, le due potenze del Golfo hanno, come noto, visioni diametralmente opposte: questo è uno dei nodi (sebbene certo non l’unico) che impediscono a Washington di elaborare una strategia chiara ed efficace per depotenziare il califfato nel Levante: questa non può prescindere da una sorta di patto fra sauditi e iraniani per la sicurezza regionale.

Dopo aver percorso, come spesso nella sua storia politica, due binari paralleli ma opposti (alleanza con l’Occidente, aiuto ai fondamentalisti), Riyad cerca un altro assetto, che le permetta di contenere i costi dell’incauto appoggio alla nebulosa islamista in Siria e Iraq. E in questo tornante rischioso, i sauditi non escludono – pur di uscire dal gorgo siro-iracheno – di guardare persino all’altra metà del Golfo.